Nell’establishment letterario alcuni (Oreste Del Buono, Luce D’Eramo) ne compresero la grandezza, ma non in numero sufficiente da garantirgli un’attenzione “seria”. I suoi mondi, forse, erano troppo fantascientifici, troppo concreti, per una letteratura ossessionata dall’introspezione solipsistica, dal rifiuto di ogni “rapporto con le cose”. Concedendomi (ma chissà?) un po’ di libertà interpretativa, leggerei una delle tarde storie di Aldani, la meravigliosa Labyrinthus (1998), come un’ammissione in questa direzione. Portando la Gabbia dello scoiattolo di Thomas Disch all’estrema conclusione logica, il mito dell’intellettuale alienato viene denunciato come un’illusione di onnipotenza, che può solo sfociare nell’impotenza: la torre d’avorio come campo di concentramento. Lettore di Conrad, Aldani conosceva il bisogno di storytelling. La fantascienza e il fantastico gli hanno permesso di raccontare persone che sperimentavano e ci facevano sperimentare altre interazioni con il mondo e con la storia. A molti di noi, scrittori e lettori, ha mostrato la direzione. Molti di noi, in momenti diversi, hanno fatto visita al padre, al vicino – e, dopo aver letto buone storie, hanno trovato del buon vino. Lino Aldani ci ha reso possibili.