Una decina d’anni dopo, in biblioteca, ci fu la scoperta del suo saggio La fantascienza, del 1961,

La copertina di Quando le radici di Lino Aldani
La copertina di Quando le radici di Lino Aldani
 uno dei primi volumi critici sulla SF al mondo, il primo in Italia. La definizione di Aldani resta importante: una letteratura che usa la scienza e la logica per “porre il lettore […] in un diverso rapporto con le cose”. E se la narrativa di Aldani ha sempre fatto centro su protagonisti forti, erano sempre le cose, le ambientazioni, i mondi che restavano in mente: mondi completamente alieni o che, quando erano apparentemente ordinari, si rivelavano impalpabilmente arcani, perturbanti, diversi. Le storie erano esplorazioni di quelle diversità.La vera rivelazione giunse leggendo l’indirizzo dell’autore, aggiunto alla fine del libro: in quel periodo (prima della mia nascita) Aldani viveva a Roma, nella stessa strada dove vivevo io, e dove vivo ora. Un vicino di casa, è così che finii per considerarlo, un vicino che ora abitava nel Nord Italia (dov’è ambientata gran parte della sua narrativa), un vicino dell’immaginazione che parlava da una generazione diversa e in qualche modo aveva saputo immaginare qualcosa che mi riguardava. Non ho mai trovato la mia voce nella sua fiction, sempre la sua, ma con quella voce potevo condividere molto, moltissimo. Un vicino con storie che potevo ascoltare.

Di persona lo incontrai per la prima volta solo nel 2006, alla festa per l’ottantesimo compleanno, e gli portai delle foto recenti della vecchia strada. Scoprimmo di avere qualche conoscenza comune nel quartiere. Davvero, Aldani era ancora un vicino di casa.

Intorno al 1960 aveva esordito, come scrittore di hard SF, nella rivista Oltre il cielo che aveva creato una scuola di autori di racconti brevi. Fra altri talenti di formazione scientifica come Giovanna Cecchini, Cesare Falessi, Ivo Prandin e Gianni Vicario, con le sue parabole morali Lino Aldani era il gigante. Chiunque scriverà una storia della SF nell’Europa continentale, dovrà metterlo sullo stesso livello di Lem o dei fratelli Strugatski.

Come editor, l’umanesimo di matrice letteraria della serie antologica Futuro, curata con Giulio Raiola e Massimo Lo Jacono nel 1963-64, era stato il suo tentativo di gettare un ponte sulle diffidenze dell’establishment, mostrando che alcuni autori italiani si accostavano alle icone classiche del genere raggiungendo conclusioni simili ai loro contemporanei anglofoni, come Ballard. Insieme, le scritture e l’attività di promotore lo rendono il vero padre della SF italiana. A un ruolo centrale torna a fine anni 80, dirigendo con Ugo Malaguti Futuro Europa, palestra importante per tantissimi nuovi autori e autrici.

Nei periodi chiave della SF italiana, Aldani è sempre in prima fila. Nel suo caso come in quello di Vittorio Curtoni, ho trovato ingiusti quei ricordi, rivelatori soprattutto della paralisi intellettuale di chi li ha firmati, che si concludevano con gli anni Settanta. Proprio negli anni 2000, ancora una volta Aldani aveva ripreso il suo posto.

Potremmo iniziare, ripercorrendo la sua carriera, dalle scettiche storie di alieni degli inizi. C’è ancora magia in quei nomi di creature, misteri, disastri che coinvolgevano spazi esterni e interni: i Kumar, il Kraken, ;;il Morbo Rosso della luna di Saturno, i marziani e venusiani che si infiltrano nell’umanità iniziando dai collaboratori di una rivista SF. Drammi etici imbevuti di letture sartriane e che accettavano la sfida di Matheson, Brown, Bradbury, Sturgeon, ancora affascinanti come i racconti dei maestri anglofoni. Esiste un Rod Serling o un Gene Roddenberry in grado di render loro giustizia? Molti potrebbero dar vita a grandi, profondi spettacoli visivi: di certo, con Aldani ci si addentrava in una twilight zone.