“Che accidenti è, papà?” ripeté il bambino.  Rashid incoccò una freccia.

 “Un topo delle rocce, carne tenera. Ti piacerà”. Il bambino si allontanò zoppicando. Dalla sabbia spuntavano qua e là brandelli di tela secca e lingue di cuoio che dovevano essere servite come rinforzo per il telaio intrecciato degli pneumatici.

 Yussouff arrancò su per una duna. Arrivato in cima, si guardò indietro arricciando il naso. La struttura puzzava, l’aria intorno odorava di carne morta e uccelli.

 Vide il padre tendere l’arco. Un attimo dopo lo sentì imprecare.

 Qualcosa gli sfiorò la punta del naso, la acciuffò al volo.

 Una piuma.

 L'uomo si lasciò cadere nella sabbia, le mani sospese a mezz’aria, attento a non posarle da nessuna parte. Entrambe le maniche della tunica erano lorde di muco secco. Per quanto malato - le tossine da settimane erano passate all’offensiva e avevano cominciato a dilaniare adagio i suoi organi interni - si sforzava di non darlo a vedere e tirava avanti come meglio poteva.

 Yussouff scrutò la struttura, c’erano altri uccelli là in cima. Una colonia intera, invisibile a chi stava sotto. Molti di loro avevano portato lassù sfilacci di gomma con cui avevano edificato i loro nidi nel metallo: su una cremosa colata di guano bianco, che avvelenava la luce e bruciava la congiuntiva.

Chatarra

 Lara incrociò i remi in grembo e si guardò il dorso delle mani. Nessun tremore, effetti collaterali zero. Scrutò il pelo dell’acqua, lì dove la pala aveva lasciato un piccolo gorgo di schiuma grigiastra, poi allargò lo sguardo sulla distesa lattiginosa.

Pochi raggi di sole tiepido spalmavano il mare di riflessi di una sfumatura malata, febbricitante, che diventava via via più livida sotto la massa nera che si stava accumulando a est.

Chatarra era vicina, l’annusavano nell’aria.

Da una sacca a poppa arrivava lo squittio nervoso delle esche.