Fra le figure tematicamente più innovative c’è senz’altro il gallese Alaistar Reynolds. Fra l’altro, Reynolds – astronomo che ha lavorato lungo quasi un quindicennio per l’Agenzia Spaziale Europea, prima di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura – si pone in una tradizione britannica di scienziati-scrittori che comprende Arthur C. Clarke, Fred Hoyle e Charles Sheffield. Reynolds sa di cosa parla quando parla di scienza, per quanto immaginaria, e per esempio rifiuta di ricorrere alla scorciatoia del viaggio più veloce della luce.

In Revelation Space (il romanzo del 2000 che inaugura una serie in corso – finora 5 romanzi e un’antologia), più del ritrovamento delle reliquie degli alieni scomparsi conta la costruzione dello sfondo. Rispetto all’Incontro con Rama di Clarke, nelle parole di Gwyneth Jones, la narrazione è “meno ascetica” e abbraccia “una vastità, un’inumana maestà irriducibile a termini umani”. In questo e nelle altre opere ambientate nel “Revelation Space Universe”, troviamo una fantascienza hard in cui fra intrecci e trame plurime si dipana l’affresco di uno spazio e un tempo enorme e lontano. Fra evoluzione, cosmologia e tecnologia, Reynolds si propone come il più degno successore dell’immaginazione speculativa di Clarke. Lo seguono altri quattro romanzi: i paesaggi devastati del bellissimo Chasm City (2001), con una civiltà quasi utopica regredita per colpa di un virus nanotecnologico; il conflitto anche politico fra fazioni postumane di Redemption Ark (2002); l’enigma alieno di Absolution Gap (2003); il prequel di The Prefect (2007), con i rapporti-scontri tra un’umanità diffusa in habitat orbitali. In generale, gli scenari di Reynolds sono meno utopici rispetto a Banks, e meno trionfalistici rispetto a Bruce Sterling (altro autore a cui deve molto). Nello stesso universo sono ambientati anche molti dei racconti, raccolti in quattro antologie.

Non collegati agli altri sono altri romanzi. Century Rain (2004) parte dall’ucronia di una Francia fascista, e si sposta in un futuro che cerca di ricostruirsi dopo un “Nanocausto” e un “Oblio” (informatico): chi dice che l’avventura spaziale non parla del nostro mondo? La space opera su scala gigantesca torna in Pushing Ice (2005), che è anche un tentativo di parlare di economia futura, House of Suns (2008), dove tutto comincia con la clonazione, e Terminal World (2010), con una spruzzata di steampunk. L’ultimo romanzo, Blue Remembered Earth (2012), si annuncia come inizio una trilogia (“I figli di Poseidone”, detta anche “11k” perché intende raccontare undicimila anni di storia a venire) ambientata in un futuro al limite dell’utopico, in cui l’Africa è diventata una potenza scientifico-tecnologica globale. 

In italiano abbiamo finora incontrato, oltre a Revelation Space, una manciata di romanzi brevi e racconti. Nell’interessante inversione di prospettiva di Glacial (2001), il mistero che gli esploratori postumani devono risolvere riguarda la scomparsa di una colonia planetaria americana. Nel complesso Diamond Dogs (2003), al centro è un manufatto alieno, un labirinto che offre un enigma matematico dietro l’altro, che porta a una serie di incontri, con storie nella storia e riferimenti e allusioni letterarie e fantascientifiche. Pubblicato insieme e gemellato da un altro titolo tratto da indimenticate canzoni del rock inglese (il primo da David Bowie, il secondo da Echo & the Bunnymen) è Turquoise Days, su una colonia umana rimasta tecnologicamente arretrata. Che il rock sia meritoriamente importante per Reynolds lo dimostra anche il recente, scanzonato At Budokan (2010), tra manipolazione genetica e heavy metal: due polarità etiche anche in un racconto dove Reynolds sembra avere soprattutto voglia di divertirsi senza prendersi troppo sul serio. Decisamente cupo è invece Beyond the Aquila Rift (2005), con wormhole, ologrammi, nave spaziale… e un disperato circolo vizioso temporale, una storia da riuscira a spezzare. Su diversi livelli allo stesso tempo opera anche Tiger, Burning (2006): la detection, gli universi paralleli, la tigre, e il teatro. Ma che Reynolds avesse qualcosa di shakespeariano tutti i suoi lettori l’avevano pensato sin dall’inizio. 

Anche questo Troika, uscito prima nel 2010 sull’antologia Of Godlike Machines, a cura di Jonathan Strachan, e poi ristampato come volume autonomo dalla piccola, e sempre benemerita, Subterranean Press – e finalista ai premi Hugo, Locus e Sturgeon del 2011 – intreccia diversi piani, tempi e motivi. Stavolta il futuro è decisamente prossimo. Al centro è un enigma che raggiunge il sistema solare dallo spazio, un big dumb object impenetrabile in più di un senso. La “Matryoshka”, come la bambola russa, si rivela composto di gusci concentrici, uno dentro l’altro: un mistero dentro il mistero dentro il mistero. C’è stata l’esplorazione di tre astronauti russi, con risultati psicologicamente inquietanti. Ma Troika è anche la storia di un futuro in cui l’Europa è in declino e la Russia (una parte del mondo che affascina Reynolds, come dimostrano diversi romanzi e racconti: uno dei suoi tanti meriti) ha riaperto i gulag, e a raccontare la storia sono i flashback del fuggiasco da un “manicomio”, forse inaffidabile. Quello che si scopre nello spazio, inevitabilmente, riguarda anche il mondo reale. Il finale, sotto più di un aspetto, è aperto, e non può essere altrimenti. Ancora una volta, c’entra la musica.

Anche per l’ambientazione vicina nel tempo e per la brevità, con Troika Alastair Reynolds ci offre quasi una dichiarazione di intenti sui sogni dello spazio, e su una delle missioni profonde della fantascienza: aprire interrogativi e misteri.