Un rewind automatico e velocissimo mi ha riportato nel flusso dati, al momento della partenza, fuori della stazione satellitare. Mi vedo scorrere attraverso lo spazio, un bit rosso controcorrente nel flusso misto dati/intenzione, verso Terra, nel continente oblungo ed esteso che so chiamato America.

Filo alacremente verso la parte più larga delle due principali, quella che arriva fino al polo ghiacciato. Proseguo verso un punto spostato nella zona destra e anche di questo conosco il nome: Washington. No! Non ho scorto nessun segnale stradale, io e la topografia siamo la stessa cosa. Vedo la città ingrandirsi e il flusso entrare in un angolo di un edificio immenso paragonato al resto, pentagonale. Guardo il bit rosso-io attraversare un soffitto e sono dentro. Ho trovato la fonte dell’intenzione, da dove è partita l’operazione ‘Bruciatutto’. L’uomo è qui dentro, lui e tutte le mie risposte.

Esco dal monitor e mi immergo nel ‘qui e adesso’.

Mi trovo a ispezionare un salone, asettico e impersonale di grigi e bianchi dai toni sporchi, con le pareti tappezzate di monitor e arredato con scrivanie, tavoli e ripiani carichi di consolle e strumentazioni mediali, cavi colleganti e malamente disposti in una maldestra ragnatela. Un pannello elettronico raffigurante il medio-oriente sovrasta esteso sul rimanente spazio come il re sta alla sua corte. Uomini in divise grigio-verdi di varie tonalità e fogge si aggirano per il salone con falsa utilità o sono seduti ai terminali assorti come in simbiosi. Quello vicino a me è un ragazzotto occhialuto, pallido e magro, rasato non abbastanza ‘in corto’ da evitare di cogliere la biondità nordica del cuoio capelluto. È roboticamente intento a picchiettare con le dita su di una tastiera.

Per il tempo in cui stavo fluendo dal monitor nel salone mi era venuta la voglia imperante di far apparire sul video del ragazzotto una scritta, sintesi del mio pensiero nel primo attimo di comprensione: Dio vi maledica, guerrafondai di merda!

Non l’ho fatto. No. Perché era inutile. Sarebbe stato solo un gesto insensato anche se giustificabile, dettato dal cuore e dal risentimento, per l’appunto momentaneo, in fase di passaggio a una nuova e completa presa d’atto. Un attimo…

A parte che non ero mai stato così scurrile da vivo e diventarlo da morto – anche se come fantasma, non mi avrebbe reso migliore – attraverso il monitor, l’ultimo passaggio dal flusso misto nei meandri telematici, all’intenzione vera e propria accasata nella sala degli uomini e nelle loro menti, mi ha fatto da spinta ultima apportando un cambiamento basilare. Arrivare all’obiettivo scontrandomici come a un muro non ha fatto scattare i lucchetti, li ha fatti esplodere, e dirompere i ricordi con la spinta sufficiente per riassestarli nei loro luoghi d’origine, dove avrebbero dovuto trovarsi quando mi hanno ucciso.

Riavere la propria memoria dà veramente il senso di completamento, tutto un altro modo di vedere le cose dopo morto, ovvero nella maniera ‘giusta’, perché ora so. Adesso ricordo.

Il mio nome è Alì Anwar, un nome comune dalle mie parti.