A pochi passi da lui, Mikka Oberkir, che aveva grossomodo la mia stessa età, osservava la scena muovendo uno sguardo incerto fra Ardelan, Arkad e, da quando fui arrivato, il sottoscritto. Se mai era stato anch’egli un aggressore, in quel momento non mi parve così convinto. Più indietro c’erano Dhara, la sorella minore di Arkad, che esibiva un sorriso compiaciuto, e un’altra ragazzina, minuta e dai lineamenti sottili, che non avevo mai visto prima e che ostentava una calma surreale, come se nulla di quanto stava avvenendo la turbasse. I rapporti fra i presenti non mi erano chiari. La sola certezza era il terrore che albergava negli occhi tremanti di Ardelan. - Puniscilo, Arki. -  furono le parole che la graziosa Dhara scandì con la voce sottile di chi è abituato al comando. Al fratello maggiore furono sufficienti per scagliarsi contro Ardelan, che si preoccupò solo di coprirsi il volto e prese a gridare a squarciagola versi inarticolati che venivano strozzati dal vento.

A dirla tutta, il suo totale abbandono e la sua inettitudine mi irritarono. Quel ragazzo non aveva alcuna intenzione di difendersi. Mentre i colpi di Arkad scendevano senza pietà sull’addome e sul volto della vittima, Ardelan piangeva, mugolava, e a tratti implorava pietà.

Ancora oggi rammento quella scena, ancor oggi è come se sentissi quelle urla originare da qualcosa di molto più radicato e intenso dello stesso dolore che pure Ardelan provava. In esse c’erano il lamento della rassegnazione e il senso di colpa, che si traducevano nell’accettazione della propria incapacità di reagire. Un senso inestinguibile d’inferiorità era la sola spiegazione di quella sottomissione completa e alimentava la sofferenza e, con essa, la vergogna per una debolezza vissuta come un tratto indelebile e distintivo dell’esistenza.

Ardelan non gradiva certo il castigo, ma riteneva di meritarlo. Non chiedeva aiuto ai suoi simili, ma pietà al suo torturatore. Si riteneva indegno, inferiore, e per un istante, oltre che pena per le sue condizioni provai anche un profondo disprezzo per la sua ignavia.

D’istinto, mi feci strada fra quella piccola selva di statue che erano i ragazzi di Ramsar, allargai le braccia e le richiusi afferrando saldamente Arkad per le gambe, ma il robusto figlio del sindaco si liberò facilmente di me con un vigoroso calcio all’indietro, che mi colse in pieno petto togliendomi il respiro. Ero certo che non avrei mai potuto rappresentare un pericolo per Arkad, ma ottenni in realtà l’effetto che avevo sperato, ovvero indurre una reazione da parte del resto del gruppo. In realtà, sulle prime non potei rendermene conto, perché quanto avvenne negli istanti successivi apparve ai miei occhi come qualcosa di inspiegabile e non certo indotto dal mio goffo tentativo di aiuto.