Siedo sul bordo dell’ampio balcone della mia abitazione, una piccola casa in pietra vulcanica e ferro che guarda le valli di Haddaiko, lungo le quali il lichene rosso si mescola alle prime macchie di bosco.

Le pareti intorno brillano di un rosso cupo e rugginoso che mi avvolge e mi rammenta che la bellezza che contemplo ebbe inizio nelle viscere di questo mondo.  

Volgo lo sguardo verso l’alto.

Oslo, il secondo sole, grida il suo incontrastato dominio spiegando le sue mille ali dorate al centro di un cielo terso e turchese, che il fedele e veloce Aleph, il primo sole, ha già percorso quasi per intero nella sua fuga verso occidente. A oriente, seminascosto dalla cima del Vuttala, il piccolo Garan, per nulla invidioso dei fratelli maggiori, è una gemma rossa brillante di speranza.  

Sono nato in una casupola nascosta fra le rocce sulle alture di Ramsar, il più piccolo del satelliti del Quinto Mondo. A quel tempo, il sistema di Harris era dominato da un unico clan. Oggi so che il più grande errore che i suoi membri abbiano commesso fu quello di non sterminare i loro oppositori, fra i quali vi erano i miei nonni, e i miei genitori.

In quel piccolo mondo dimenticato, ho vissuto un’infanzia tranquilla, protetto dall’affetto di una famiglia fatta di donne e uomini sconfitti, che mai si diedero per vinti.

Appresi la storia dell’Umanità da mio nonno Vini, e da mio padre, Markus, ereditai la capacità di attendere che gli eventi volgessero a nostro favore. Nel lento scorrere del tempo, su Ramsar, si nascondeva l’inevitabile ricostruzione dell’identità per la quale sapevamo che un giorno saremmo tornati a combattere. Un ideale di eguaglianza fra gli esseri umani animava la nostra quotidianità e riempiva di energie e speranze la nostra attesa.

Ma oggi so che persino lassù, sugli altipiani di Ramsar, una piccola luna abitata da un pugno di coloni fra i quali si nascondeva il mio clan di reietti, erano in molti, i nostri nemici.

Rammento una sera, in cui i profili delle lune di Harris V splendevano allineati l’uno all’ombra dell’altro, sette pilastri ricurvi che sembravano sorreggere il cielo stellato sopra di noi, regalandoci una delle fresche e luminose notti di cui Ramsar era prodigo.

Avevo nove anni.

A noi bambini era concesso muoverci all’aperto proprio in quei momenti, quando i raggi dei tre soli non erano in grado di nuocerci attraversando l’esile atmosfera del satellite. La durata della notte, su Ramsar, ottava di otto lune orbitanti intorno al maggiore dei pianeti del sistema di Harris, dipendeva da molti fattori, e con quel termine, “notte”, ci riferivamo unicamente all’assenza dei due soli maggiori nel cielo, poiché la luce prodotta da Garan, il sole minore, al cospetto delle altre lune si dimostrava persino trascurabile. Per questo motivo, di notte, su Ramsar ci si vedeva più che bene; nascondersi, per chiunque, sarebbe stato impossibile.