Stabilì il quartier generale della società, le zone di alloggio per gli operai e la sua dimora personale in un luogo che era tanto centrale rispetto al sistema interno quanto considerato fino ad allora un luogo impossibile da colonizzare. Costruì la propria reputazione colonizzando quello che tra i pianeti era definito l’Inferno del Sistema Solare.

Venere.

Il pianeta crebbe da un puntino di luce fino a diventare una perla bianca e gibbosa, troppo brillante per essere osservata. Lo yacht interplanetario in arrivo si liberò della velocità in eccesso attraversando la parte bassa dell’atmosfera di Venere, rimbalzò con facilità in un’alta orbita ellittica e poi si sistemò in un’orbita di parcheggio di due ore.

Il Solimano possedeva una zona di osservazione fuori dal comune, un singolo pannello trasparente di quattro metri di diametro. Rimasi a galleggiarci davanti per guardare la chiatta da trasporto che saliva a incontrarci. Se il Solimano mi era apparsa una nave enorme, la chiatta lo faceva sembrare un modellino. Aveva la tipica forma di un mezzo adatto a scendere sulle superfici planetarie, un cono appiattito con la parte anteriore arrotondata e motori assurdamente piccoli alla base, ma lunga più di un chilometro e altrettanto larga. Volò fino al Solimano e vi si agganciò, dando l’impressione di una zucca che si accoppiasse con un pisello.

Le dimensioni, lo sapevo, erano però ingannevoli. La chiatta era in realtà un sottile involucro che ricopriva un guscio vuoto fatto di titanio a schiuma compressa con una vasta camera vuota all’interno. Non era progettata per atterrare ma per galleggiare nell’atmosfera, e ciò richiedeva grandi volumi e pesi minimi. Le navi non atterravano mai sulla superficie di Venere: l’epiteto di “inferno” era ben scelto. La chiatta di trasferimento era in pratica più un dirigibile spaziale che un’astronave, un velivolo adatto a galleggiare tanto tra le nuvole quanto in orbita.

Pur sapendo che la grande mole della chiatta era poco più solida del vuoto, ne rimasi comunque intimidito.

La cosa non parve impressionare Leah. Era riemersa dal suo silenzioso isolamento mentre ci avvicinavamo a Venere, ma si era limitata a uno sguardo distratto fuori dal pannello di osservazione. Per me spesso era difficile stabilire cosa le interessasse. Talvolta l’avevo vista trascorrere un’ora a osservare una roccia, apparentemente affascinata da un normale ammasso di condrite, e rigirarla per esaminarla con attenzione da ogni angolo possibile. Invece altre cose, ad esempio un’astronave grande quasi quanto una città, le ignorava, come se fossero meno importanti della polvere.

I carichi ingombranti venivano trasportati nei compartimenti della cavità interna della chiatta, ma dato che solo noi due scendevamo su Venere, ci fu concesso di accomodarci nella cabina di pilotaggio, una bolla trasparente e quasi invisibile situata nella parte anteriore.

Il pilota era un altro buddista dalla tonaca gialla. Mi domandai se appartenere a quella setta fosse una caratteristica comune a tutti i piloti di Venere. Questo era però tanto loquace quanto quello del Solimano era stato riservato. Non appena la chiatta si fu sganciata, un cavo di sicurezza si tese tra il velivolo e la stazione. La stazione fece calare la chiatta verso il pianeta. Mentre scendevamo lungo il cavo, il pilota si preoccupò di indicarci ogni dettaglio del panorama: i minuscoli satelliti di comunicazione che percorrevamo il cielo come formiche a motore; i lampi di luce rosa che apparivano nell’emisfero notturno del pianeta sottostante; la ragnatela dorata di un trasmettitore d’energia a microonde. A trenta chilometri di altezza, mentre continuava a chiacchierare, il pilota liberò il cavo, permettendo alla chiatta di procedere in caduta libera. La Terra e la Luna, stelle gemelle di blu e bianco, sorsero oltre l’orizzonte di perla. In orbita si vedevano lontani complessi industriali, facili da individuare grazie alle chiatte da trasporto ormeggiate e ai fari di navigazione che lampeggiavano, così distanti che persino le immense chiatte apparivano ridotte a dimensioni insignificanti.