Quando io e Leah Hamakawa arrivammo sulla stazione orbitale Riemann, c’era una sorpresa ad aspettarla: un messaggio. Non un messaggio elettronico su un link-pad, ma una busta vera e propria, con Dottoressa Leah Hamakawa scritto all’esterno in elegante corsivo.

Leah sfilò la lettera dalla busta. Il messaggio era inciso su una lamina rigida di un qualche tipo di cristallo che scintillava di un colore cremisi intenso e traslucido. La osservò, la piegò, ci passò un’unghia sopra e poi la mise controluce, girandola un poco. I bordi raccolsero la luce e la sparsero nella stanza come gocce di fuoco.

– Diamante – disse. – Le impurità di cromo le danno il colore rosso, l’azoto probabilmente il blu. Affascinante. – Me la passò. – Fa’ attenzione agli orli, Tinkerman, potrebbero essere affilati.

Passai con attenzione un dito sul bordo, ma scoprii che l’avvertimento di Leah non era necessario: aveva subito un qualche genere di trattamento di passivazione per smussarlo e impedirgli di causare tagli. Le lettere erano miniate in blu, cesellate in maniera così fine sulla lamina da sembrare in rilievo. L’intestazione diceva: “Invito da parte di Carlos Fernando Delacroix Ortega de la Jolla y Nordwald-Gruenbaum”. E, in caratteri più piccoli, proseguiva: “Riteniamo molto interessanti le sue ricerche sull’ecologia di Marte. È nostro desiderio invitarla nella nostra residenza a Hypatia, a suo piacimento, per un colloquio.”

Il nome Carlos Fernando non mi diceva nulla, ma la famiglia Nordwald-Gruenbaum non aveva bisogno di presentazioni. L’invito arrivava da qualcuno che apparteneva alla cerchia familiare ristretta del satrapo di Venere.

Un mezzo di trasporto, continuava la lettera, sarebbe stato messo a disposizione.

Il satrapo di Venere. Uno dei venti anziani, signori e proprietari del sistema solare. Un uomo così ricco da rendere privi di significato i precedenti modelli di riferimento per la ricchezza. Cosa poteva volere da Leah?

Cercai di ricordare cosa sapessi del sultano delle nuvole, il satrapo delle favolose città galleggianti. Ero ben lontano dal conoscerne molto. La società, mi pareva di rammentare, era stata definita decadente e perversa, ma sapevo poco altro. Gli abitanti di Venere erano riservati.

La stazione Riemann era brutta e funzionale, gli interni di alluminio scuro anodizzato, con un rivestimento ruvido sulla superficie. C’era un punto di osservazione nel salone e Leah ci si era recata per guardare all’esterno. Mi rivolgeva la schiena, la sua figura incorniciata dall’oscurità. Persino nella tuta di bordo spiegazzata era bellissima e mi chiesi se sarei mai riuscito a comprenderla.

Con la rotazione della stazione orbitale la bolla blu della Terra, una scultura fragile e delicata fatta di neve e cobalto, sorse lentamente davanti a lei, contornandola di una luce color zaffiro. – Non c’è nulla per me laggiù – disse.

Rimasi in silenzio. Non ero nemmeno sicuro che si ricordasse della mia presenza.

Con voce che era a malapena un sussurro, aggiunse: – Non ho un passato.

Il silenzio metteva a disagio. Sapevo che avrei dovuto dire qualcosa, ma non ero sicuro di cosa. – Non sono mai stato su Venere – dissi alla fine.

– Non conosco nessuno che ci sia stato – commentò Leah voltandosi. – Mi pare che la lettera non specifichi che debba andare da sola. – Il tono era pragmatico: non dissuasivo, ma neppure incoraggiante.

Non c’era da entusiasmarsi, ma era meglio di un no. Mi domandai se in qualche modo le piacessi o se tollerasse soltanto la mia presenza. Decisi che era meglio non chiederglielo. Inutile sfidare la fortuna.

Il mezzo di trasporto messo a disposizione si rivelò essere il Solimano, uno yacht a fusione.

Il Solimano non era solo una nave di prima classe, era di un lusso estremo. Più grande della maggior parte dei trasporti minerari e abbastanza vasta da poter ospitare senza difficoltà un normale yacht all’interno della sua sfera di ricreazione più spaziosa. Ognuna delle cabine private, e ne aveva sette, era più ampia di un tradizionale modulo abitativo. Di solito le navi di maggiori dimensioni erano lente, ma il Solimano faceva eccezione, grazie al numero impressionante di vettori delta di cui era dotato. La durata del trasferimento orbitale per raggiungere Venere era molto più breve di quella di ogni altra nave commerciale.

Noi eravamo gli unici passeggeri.

Malgrado le dimensioni, la nave aveva un equipaggio composto da sole tre persone: il capitano, il primo pilota e il secondo. Il capitano, con la testa rasata e la tunica color zafferano da novizio buddista, ci accolse all’arrivo e senza lasciare spazio a dubbi, seppure con cortesia, ci informò che l’equipaggio non avrebbe ricevuto ordini dai passeggeri. Dovevamo rimanere nella sezione a noi riservata e saremmo stati portati su Venere. Gli alloggi dei passeggeri e quelli dell’equipaggio erano separati e non era previsto che avessimo contatti durante il viaggio.