Stranamente ciò che più tormentava Trevor erano le catene. Gli impedivano di crollare a terra e gli facevano esplodere le vene nei polsi per i quali era appeso.

Sentiva nella bocca il sapore acre del proprio sangue, il cui fetore si combinava a quello della muffa e degli escrementi a pochi centimetri da lui.

Ogni movimento gli procurava delle fitte lancinanti ai fianchi e al torace: doveva avere qualche costola rotta. Se almeno avesse potuto accasciarsi a terra avrebbe trovato il conforto del pavimento lurido, invece era inchiodato al soffitto da quelle catene, con le ginocchia che non lo sostenevano più.

Faceva maledettamente freddo. La cella buia in cui si trovava Trevor doveva essere sotterranea, come suggeriva l’umidità che gli entrava nelle carni nude e tremanti.

Cosa aspettavano a ucciderlo? Ormai avevano vinto, non c’era più niente in cui Trevor potesse essere utile ai suoi carcerieri. Mantenerlo in vita era per loro solo uno spreco di tempo e di denaro. Prima o poi si sarebbero stufati di averlo tra i piedi e se ne sarebbero sbarazzati. Trevor non vedeva l’ora: un colpo di fucile e tutto sarebbe finito per sempre.

Sentì un leggero clangore sopra la sua testa. Doveva essere un piccione che si era posato sopra la grata della presa d’aerazione della segreta. Di tanto in tanto udiva il greve tubare degli uccelli che si appollaiavano sulla grata; sembravano intonare uno struggente requiem apposta per lui.

Durante la prigionia Trevor aveva imparato ad apprezzarli: erano gli unici esseri viventi che era in grado di percepire all’infuori dei suoi aguzzini.

– Com’è il tempo lì fuori, amico? – mormorò l’uomo, scioccamente.

Il sangue rifluì dalle ferite nella bocca ancora fresche e per un momento Trevor se ne sentì soffocare. Forse il suo corpo stava cedendo; forse aveva finalmente deciso di lasciarlo morire.

“Beth…” pensò, sputando un grumo ematico. Un pensiero doloroso, come una nuova sprangata in grado di fracassargli la scatola toracica e dilaniargli il cuore. Chissà quanto stava soffrendo da quando lui era scomparso. Magari credeva che l’avesse abbandonata per inseguire la sua causa, probabilmente credeva perfino che fosse già morto.

La verità, invece, era immensamente più crudele. Se Beth l’avesse conosciuta sarebbe piombata in una disperazione molto più profonda di quella in cui avrebbe potuto gettarla qualsiasi congettura. Razionalmente Trevor avrebbe dovuto auspicare che Beth non sapesse mai come stavano le cose e continuasse a ritenerlo nascosto in un bunker o ucciso a colpi d’arma da fuoco, ma non ce la faceva. Era l’unico uomo in tutto il Sistema Solare a subire quanto stava subendo lui e nessuno ne avrebbe mai saputo nulla: come poteva desiderare di essere dimenticato anche dalla sua donna?

Sentì un rumore sordo provenire da fuori. Stavolta i piccioni non c’entravano niente: era lo schiocco di una porta che si apriva. Trevor fu attraversato da capo a piedi da un tremore convulso, ma non a causa del gelo della cella.

Un ronzio annunciò che l’accesso della prigione si stava spalancando, poi un’ondata di luce gli ferì gli occhi abituati all’oscurità. Il calpestio infernale degli stivali cessò quando una manciata di uomini fu vicina al prigioniero.