Questo non è un libro steampunk. O almeno, non segue i modelli che in questi ultimi anni stanno dando nuova popolarità al termine. In tutta franchezza, la parola “steampunk” sta diventando un termine di uso così generalizzato da farle perdere ogni significato, e che ha poco a che fare con l’espressione artistica (scritta, visiva, disegnata). Dunque, il nostro invito è a non chiamare steampunk tutta la letteratura fantastica di ambientazione vittoriana o di inizio Novecento. Esiste un fenomeno di attenzione culturale verso l’Ottocento, meritevole di molte riflessioni (non tutte liete, sospettiamo): ma zombi goth, investigatori a imitazione di Sherlock e gli infiniti pastiche di ambientazione urbana ottocentesca hanno o stanno creando una propria storia, una propria presenza. E lo steampunk ne ha un’altra.

Con in mente antologie rievocative come quella curata da Ann e Jeff VanderMeer (Steampunk, a cura di Anne & Jeff VanderMeer, San Francisco, Tachyon, 2008), potremmo scegliere tre tratti indispensabili. Primo, lo sfondo è l’epoca dei grandi imperi coloniali; quindi, lo spettro temporale può essere ben più ampio dell’era vittoriana: dal periodo di espansione territoriale a inizio Ottocento, con l’esplosione urbana nelle metropoli, fino allo sviluppo dei grandi totalitarismi dopo la Prima Guerra Mondiale. Lo dimostra il fatto che a diventare icone dello steampunk siano stati due elementi fra loro anacronistici: le macchine a vapore e le aeronavi. Secondo e fondamentale, lo steampunk è, sostanzialmente, una storia alternativa in cui le tecnologie del passato abbiano dato luogo a uno sviluppo analogo a quello del presente. Il suo “retrofuturismo” prova anche a immaginare il mondo contemporaneo con gli occhi del passato, a riprodurre “i domani di ieri” fino, talvolta, ad arrivare a tempi letteralmente presenti. Questo implica uno stacco, un livello di mediazione in più rispetto alla pura ambientazione: Verne, Wells e Conan Doyle, o gli autori dei dime novel, delle cosiddette “edisonate” e dei primi pulp heroes non scrivevano steampunk. In una vena pienamente postmoderna, invece, lo steampunk prova a riprodurre oggi quelle fantasie di ieri, rendendo sempre palese il gioco metaletterario. Piuttosto, a precorrere l’atteggiamento (che torna negli scenari futuri delle Esposizioni Universali) sono alcuni degli illustratori, rievocati a inizio anni Ottanta nei “fantasmi semiotici” di The Gernsback Continuum di Gibson: un tempo di innocenza in cui ritrovare la capacità di immaginare il futuro.

Terzo, almeno nelle opere fondative, l’elemento “punk” ha a che fare con una posizione di scettico dissenso nei confronti di quelle epoche: sotto forma di satira o di critica sociale, parlare dei decenni del vapore e delle aeronavi è anche un modo per raccontare le radici del presente. Sempre di più, purtroppo, questo aspetto si va perdendo; sempre di più, l’etichetta steampunk è una scusa per fantasie militar-imperialiste o sentimental-nostalgiche di cui, onestamente, non sentivamo il bisogno. (Con un pizzico di provocazione, di questa involuzione parlava l’anno scorso nel suo blog l’autore britannico Charles Stross, in un articolo che ha suscitato un’accesa e interessante discussione: www.antipope.org/charlie/blog-static/2010/10/the-hard-edge-of-empire.html.)

Sulla storia del sottogenere, per ovvi motivi di spazio, saremo brevi, rimandando a Wikipedia e a tante risorse online. Negli Usa, il preannuncio è il western futuribile di una serie televisiva come The Wild, Wild West a metà anni 60 (ma non dimentichiamo, dieci anni prima, l’ironico riciclaggio del repertorio pulp in Assurdo universo di Fredric Brown). Più direttamente, in Gran Bretagna c’erano stati i tre romanzi sul “nomade temporale” Oswald Bastable di Michael Moorcock, a partire da The Warlord of the Air (1971): l’uso di motivi letterari ottocenteschi, un presente alternativo in cui, senza la Grande Guerra, gli imperi coloniali si sono spartiti il mondo - un’apparente utopia, ma sotto la superficie ribolle lo scontento – e soprattutto un gioco di distorsione sarcastica in cui ritroviamo figure storiche conosciute (fra cui Churchill, Lenin, Joseph Conrad, Mick Jagger e perfino Ronald Reagan) in ruoli satiricamente beffardi, talora con i nomi allusivamente modificati, con le onnipresenti aeronavi. Nella SF britannica, è quella generazione a riportare l’attenzione verso l’epoca vittoriana, in pastiche spesso presentati come sequel di romanzi d’epoca: Richard Cowper, Christopher Priest, Brian Stableford e, in una personalissimo serie di planetary romances, Bob Shaw. Ma nessuno supera il dissacrante spirito anarchico – lo avevamo letto negli anni dell’università e, anche se non era prevedibile il ruolo anticipatore, di certo ci era parso in sintonia con la cultura punk – di Moorcock, la critica all’imperialismo e alle sue mitologie culturali.