—PER L'AMANTE”

  Il mattino del 1 maggio 1860, la signorina Emily Dickinson, che si era autodefinita “Bella di Amherst”, si svegliò in preda a un inquietante turbamento, tanto sconcertata, in effetti, dai fantasmi notturni e dal loro ineffabile, frastornato residuo di prescienza che, scendendo silenziosamente dal letto per non svegliare Carlo che russava nel suo sonno canino ai piedi del letto a baldacchino, camminò a felpati piedi nudi, nella sua bianca camicia da notte, sulla stuoia di paglia della sua camera tappezzata di carta a fiori arrivando alla piccola scrivania in legno di ciliegio (dalla superficie larga solo cinquanta centimetri quadrati, che tuttavia abbracciava l’Universo Intero) sulla quale lottava quotidianamente con le sue dolorose, estatiche poesie, e senza neppure sedersi, buttò giù questi versi:

Io muoio! Sto morendo nella notte!

Qualcuno non mi porterebbe un lume

per orientarmi e trovare il sentiero

nella tempesta dell’eterna neve?

completati i quali, sentendosi un po’ sollevata anche se ancora paralizzata nell’animo, Emily si avvicinò all’unica finestra della parete ovest della camera d’angolo al piano superiore della Homestead (due finestre rivolte a sud si affacciavano su Main Street) e, spalancando le persiane della finestra aperta per dare uno sguardo rivitalizzante al suo giardino adorno d’api e della casa accanto, conosciuta come gli “Evergreen”, dove dimorava il suo amato fratello Austin con la moglie Sue, ebbe invece la visione quasi incredibile (che si impresse per sempre sulle sue retine come l’ultima sagoma terrena vista da un uomo morente) di un enorme barbaro peloso e barbuto, totalmente e sfrontatamente nudo, a parte un floscio cappello nero a tesa larga, che si faceva il bagno sull’erba brillante del suo prato.

Il cuore di Emily si riempì di una folla di sentimenti che nessuna Polizia Interiore poteva sopprimere.

In apparenza l’intruso non aveva notato il movimento al primo piano della Homestead che stava profanando con tanta insolenza. Sembrava totalmente assorbito, in modo quasi devoto, nel lavacro del proprio corpo massiccio e muscoloso, con un pezzo di sapone, un panno e il contenuto del barile di acqua piovana posto direttamente sotto la finestra di Emily. I suoi semplici abiti ammucchiati accanto a lui, il cappello da viaggiatore ridicolmente piazzato sui fluenti capelli striati di grigio, lo straniero proseguì indifferente con le sue abluzioni, come se fosse solo, nel mezzo di una prateria del Kansas.

Con le virili dita dei piedi conficcate nel terreno, si insaponò i polpacci, si insaponò le cosce.... si insaponò gli organi riproduttivi! Emily sbiancò alla vista della parte virile fino a quel momento nascosta, mentre strane sensazioni le davano brividi in ogni nervo. Ricordando a se stessa la sua Candida Scelta, non senza sforzo sollevò gli occhi dall’infera regione generativa.

Il gigante era passato a strofinarsi il petto mascolino e le braccia, nerborute e ben formate come quelle di un lavoratore manuale. Emily si chiese se non potesse essere un nuovo lavorante assunto da suo Padre prima della partenza, che vagando dal suo alloggio nelle stalle era arrivato nel prato e ora si lavava in pubblico come un villano...

Tutto coperto di schiuma, il gigante si interruppe. Sollevò le braccia spumeggianti verso il nuovo sole, come dando il benvenuto a un fratello. Poi, infrangendo la calma mattutina (e la compostezza che era ancora rimasta in Emily!), declamò ad alta voce: — Bene accolto è ogni organo e attributo mio, e di ogni uomo generoso e pulito! Nessuna parte o frammento di parte è indegna, e nessuna sarà meno familiare del resto!

Quell’esplosione selvaggia e inattesa fu troppo per Emily. Si accasciò semisvenuta sul davanzale, mentre l’improvvisa fragranza di alcuni precoci gigli si diffondeva fino a lei, riempiendole le narici di dolcezza.

Così facendo, urtò un cesto in equilibrio sul bordo. Assicurato a una lunga corda, era il veicolo con cui calava dolciumi ai bambini del vicinato nei giorni in cui non si sentiva in grado di lasciare la sua stanza.

Emily guardò cadere il cestino. Sembrò precipitare con lentezza innaturale, impiegando una Muta Tremenda Eternità per attraversare la guizzante atmosfera primaverile.

Infine, tuttavia, raggiunse l’estremo limite della corda, rimbalzò parecchie volte con sempre minor vigore, e il Tempo riprese il suo consueto fluire.

Questo finalmente attrasse l’attenzione del folle. L’uomo si voltò e guardò in alto, fissando Emily con i profondi occhi grigi, sovrastati da una fronte scavata. Togliendosi il cappello e inchinandosi, si lanciò in un discorso dalla strana cadenza.

[...]

[1] NOTA DEL TRADUTTORE

Citazioni di Whitman e Dickinson sono sparse in tutto il racconto, sotto forma di poesie, dialoghi e pensieri della narratrice, talvolta con piccole, significative modifiche operate da Di Filippo.

Per le opere di Emily Dickinson, ci siamo avvalsi dell’edizione completa del “Meridiano” curato da Marisa Bulgheroni: Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1997.

Per quelle di Walt Whitman, abbiamo utilizzato la recente traduzione della seconda edizione di Leaves of Grass — pubblicata nel 1856, ed è il testo a chiarire che la terza non è stata ancora data alle stampe nel momento in cui si svolge il racconto — curata da Igina Tattoni, che il traduttore ringrazia particolarmente per la gentilezza ancora una volta dimostrata: Foglie d’erba, Roma, Newton Compton, 2007. Per le anticipazioni delle poesie successive (che Di Filippo presenta quasi sempre in una propria versione modificata, “provvisoria”), la traduzione è nostra.

Da due lavori esemplari per qualità poetica e cura filologica, ci siamo talora discostati per esigenze del testo in cui collegamenti e allusioni rendevano doverosa una traduzione più letterale o comunque diversa.