VITTORIA

  

“Ero stanca, e così me la sono filata”

dal diario personale della Regina Vittoria

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POLITICA A MEZZANOTTE

Una bacchetta di rame brunito, tenuta ferma da un morsetto da laboratorio, spuntava dall’angolo della scrivania a zampa di leone, rivestita del migliore marocchino. Alta una cinquantina di centimetri, la bacchetta terminava con un giunto cardanico che consentiva piena libertà di movimento a una seconda estensione, per descrivere una sfera quasi completa. Una terza bacchetta, accoppiata alle altre due da un secondo giunto, finiva con una sagomatura foggiata in maniera da adattarsi a all’impugnatura di uno scrittore: quattro solchi per le dita e un incavo per il pollice. Dalla sagoma spuntava il pennino di una penna stilografica.

Lampeggiando e sibilando, le lampade a gas dello studio, confortevole, isolato e decorato di quadri, baluginavano su tutto il marchingegno, a cui conferivano una guizzante luminescenza color burro. Dietro i ricchi tendaggi che adornavano le larghe finestre dello studio, era percepibile una traccia della nebbia londinese, carica di colera, spesse volute turbinanti e vorticanti come complotti bizantini.

Il triste, solitario scalpitare della pariglia di cavalli che trainava l’ultimissimo omnibus della linea di Wimbledon, Merton e Tooting penetrò soffocato nello studio, rinforzando il piacevole senso di isolamento dal mondo.

Sotto il pennino, al termine del lungo braccio formato dalle bacchette, c’era un carrello inclinato. Il carrello scorreva su un intricato sistema di binari dentati montati sulla scrivania e veniva spinto tramite una manovella sulla sinistra. Nella parte anteriore del carrello, un rotolo di carta sporgeva da una staffa in ghisa. La carta, scorrendo sulla superficie di scrittura, veniva raccolta da un rullo in fondo al carrello. Anche il rullo era attivato dal movimento della manovella, in sincronia col moto del carrello attraverso la scrivania.

Nello spazio sotto la grossa scrivania, poggiata sul pavimento, c’era una brocca di vetro, della capacità di molti litri, piena di inchiostro. Dal tappo in cima alla brocca partiva un tubo di caucciù che saliva nei bracci di ottone e giungeva al pennino. Una pompa a pedale spingeva l’inchiostro fuori dalla bottiglia, portandolo nel sistema nella quantità desiderata.

Inserito al centro dell’elaborato meccanismo di scrittura era l’ingegnoso, eccentrico motore che lo alimentava.

Cosmo Cowperthwait.

Cowperthwait era un gentiluomo magro e giovane, rubicondo di carnagione e dai capelli color sabbia, di appena venticinque anni. Era vestito con un’eleganza che rivelava una condizione agiata: cravattone plastron a fantasie paisley, panciotto ricamato, calzoni attillati.

Estraendo dalla tasca del panciotto un grosso orologio a cipolla, Cowperthwait regolò l’ora sul passaggio dell’omnibus delle 11:45 per Tooting. Riponendo in tasca l’orologio, si aggiustò il corsetto naturopatico che portava a contatto di pelle. Quell’ingombrante indumento, con le losanghe d’erbe che vi erano cucite sopra, aveva la tendenza a salire dalla vita fin sotto le ascelle.

Allora il volto un poco trasognato di Cowperthwait assunse un’espressione completamente assorta, mentre lui ricomponeva i pensieri prima di trascriverli.

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