«All’inizio dicevano che era stato un errore […]. Degli arabi che stavano costruendo bombe in un tunnel sotto il Monte del Tempio. Poi è venuto fuori che l’hanno fatto di proposito. Quelli che combattono con quegli altri.» «Sunniti e sciiti?»«Forse. Qualcuno ha fatto casino con un lanciarazzi.» «Siriani ed egiziani?»«Boh. Il presidente è apparso in televisione dicendo che forse dovranno entrare nel paese. Che è una Città Santa per tutti.»«Hanno fatto in fretta» commenta tra sé Landsman.

Nei cunicoli, sotto Varsavia, Sitka, Gerusalemme. Nei cunicoli, sembra suggerirci Chabon con l’affresco postmoderno de Il sindacato dei poliziotti yiddish, passa la storia del mondo. Un flusso sotterraneo, non sempre visibile, come una corrente carsica, le cui manifestazioni occasionali sono solo la parte riconoscibile di un fenomeno molto più complesso e arduo da decodificare.

Zugzwang: la necessità di muovere verso una sconfitta ineluttabile

Chabon non ci risparmia note di colore di stampo squisitamente speculativo: il presidente John Fitzgerald Kennedy, per esempio, non è stato assassinato e ha preso in moglie la diva Marilyn Monroe, facendone una first lady ancora apprezzata a distanza di mezzo secolo, e Orson Welles è riuscito nel suo sogno di portare al cinema Cuore di tenebra (prevenendo di fatto il capolavoro di Francis Ford Coppola ispirato al medesimo soggetto, Apocalypse Now), che è diventato il film preferito di Landsman.

Ma la cultura popolare irrompe nel romanzo anche attraverso il gioco degli scacchi. Nella camera della vittima, accanto al corpo di Shpilman, viene ritrovata una vecchia scacchiera malconcia, con un inalatore Vicks in b8. La disposizione dei pezzi suggerisce una partita alle battute finali, proprio come la storia di Sitka.

A voler essere più audaci, l’intero romanzo, in effetti, ricorda una lunga partita a scacchi, in cui un pezzo minore come Landsman si muove come un cavallo nero dal passo imprevedibile in una partita più grande di lui, assistito dalla torre Berko, sempre diretto sull’obiettivo, e dall’alfiere Bina, che invece attraversa obliquamente il campo degli opposti schieramenti.

Il re nero non può che essere Mendel Shpilman, l’atteso Redentore eroinomane che trova la morte in un albergo di infima classe. La sua partita riflette forse la partita che un popolo intero si trova a dover giocare con il destino ed è una miscela di necessità e possibilità. Quando l’ultima possibilità svanisce, fronteggia a testa alta la necessità della sconfitta. Proprio come testimonia la posizione dei pezzi sulla scacchiera rinvenuta accanto al suo corpo, da cui è assente la forza superiore, vigile e determinante, della regina nera:

«Niente mosse vantaggiose possibili» dice Bina.

«Si chiama Zugzwang» aggiunge Landsman. «“Obbligato a muovere”. Vuol dire che al nero converrebbe passare.» 

«Però non si può passare, giusto? Devi per forza fare qualcosa, no?»

«Esatto» afferma Landsman. «Anche se sai che non farà altro che portarti allo scacco matto.»

Nel gioco, lo scacco matto pone fine alla partita.

Ma la vita non è una partita a scacchi e una sconfitta non comporta necessariamente la fine. Lo scopriranno, ciascuno per la parte che gli compete, i tre protagonisti di questo capolavoro malinconico e tutto sommato fiducioso, che nei cupi venti di guerra e paura che si annunciano dalla nebbiosa notte artica ha il coraggio di aprire, tra i veli del disincanto, lo spiraglio di un’alternativa possibile.

La pace sia con noi.