Guido si mise a pensare alla Tecnocrazia. La prova che tutti loro stavano affrontando era inumana, ma forse era giusto così. Era giusto che la società fosse organizzata secondo una gerarchia di valori, appurati con i più rigidi e sperimentati sistemi.Un tempo l’umanità viveva nel disordine più completo. Posti di comando potevano essere assegnati agli individui più incompetenti, persone di altissimo ingegno potevano finire adibite alle mansioni più umili. Questo almeno si diceva nei libri di testo: ancora nel secolo ventesimo vigeva un ordinamento barbaro e caotico. Il potere non era nelle mani dei tecnici ma in quelle dei politici, una genia di pazzi megalomani e passionali tramontata definitivamente con l’avvento dell’Era Cibernetica e della Tecnocrazia Integrale. Guido era un uomo pratico, non nutriva molti interessi per la storia, ma queste cose le sapeva. Sapeva che nel ventunesimo secolo le macchine avevano relegato l’uomo a semplici mansioni di controllo.Un’epoca di abbrutimento e di decadenza. Ma poi erano stati gli stessi Cibernetici a togliere di mezzo tutti gli automi, restituendo all’uomo la dignità e il piacere del lavoro. Così gli avevano insegnato a scuola. I libri di storia finivano così. Tutti.Guido non sapeva neanche che cosa fosse di preciso la Tecnocrazia Integrale. Sapeva soltanto che essa rappresentava un bene per l’umanità intera. Cresciuto nel rispetto religioso delle leggi sociali, si era adeguato ad esse con la stessa spontaneità con cui da bambini si impara a parlare. Non era certo il tipo da prestare ascolto alle chiacchiere dei deviazionisti, gente pazza e con poca voglia di lavorare, i quali consideravano l’abolizione dei robot come il sopruso d’una classe dirigente sadica, incompetente e indegna di governare.Ma i Cibernetici non potevano sbagliare. Esisteva RHUNE, il mastodontico complesso elettronico che occupava un sotterraneo di quasi un chilometro quadrato. Inutile prendersela con loro. Era RHUNE a decidere, dal prezzo del burro alla chiusura d’una fabbrica, dalla costruzione di nuovi quartieri residenziali alla compilazione dei programmi scolasti ci. E se RHUNE due secoli prima aveva sentenziato l’abolizione dei robot, il provvedimento doveva essere, più che giusto, indispensabile.Il suono della campana pose termine all’incrociarsi dei suoi pensieri. ;;;;

Aprì la quinta cartella.

Impiegò ventinove minuti per risolvere il problema di topologia. Non era sicuro del risultato, tempo a disposizione per controllare non ce n’era. Di colpo si sentì piovere addosso tutta la stanchezza della notte insonne. Tensione nervosa e sforzo mentale lo avevano svuotato d’ogni energia, stava facendo appello alle riserve più riposte e da un momento all’altro c’era da aspettarsi il collasso.

Il sesto quesito fu come un colpo di maglio. Non aveva simpatia al cuna per le geometrie iperboliche. Eppure il problema non era difficile. Si trattava di trasporre un teorema, a scelta, dalla geometria euclidea a quella di Lobacevskij. Scelse uno dei più semplici, si applicò con la forza della disperazione. Quando infilò l’elaborato nella fessura era su dato fradicio.

C’era, nella conchiglia dei suoi pensieri, la visione d’un giardinetto fiorito: Marisa, Danny che giocava. Una casa più grande. E l’avvenire sereno.

Sollevò la fodera che racchiudeva la settima domanda, l’ultima, con la stessa paurosa lentezza con cui si disinnesca una bomba.

Fottuto!

Non era pane per i suoi denti, quello. La sua mente vacillò, un tremore inarrestabile prese a scuoterlo tutto, una voglia pazza di urlare lo assalì all’improvviso. Si trattenne a stento, costringendosi a rileggere il quesito: “Usando le regole di formazione del tensore di Riemann, il candidato esprima la teoria maxwelliana del campo elettromagnetico nei termini della relatività generale di Einstein”.

Ma che volevano da lui? Che cosa pretendevano da un povero cristiano? Addio mondo, addio tutti. L’angoscia divenne intollerabile. Poi, come per miracolo, un inconscio processo di protezione psichica lo fece scivolare in uno stato di assoluta indifferenza.

Ora si sentiva completamente estraneo, come se l’esame non lo riguardasse. Cadde come in trance e riempì tre fogli di formule, tutte quelle che conosceva sull’argomento. Non aveva risolto il problema, ma se non altro dimostrava in quel modo di non essere del tutto impreparato.

La campana suonò tre volte. L’esame era terminato.

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I cancelli del palazzo del Centro Tecnico Attitudinale erano ancora chiusi. Centinaia di persone attendevano in piedi accanto alle colonne dell’ingresso, raggruppate lungo la scalinata, sparpagliate nei vialetti del parco.

— Che cosa aspettano ad aprire? — disse Marisa.