— Prenderò qualcosa più tardi, — si scusò lui. — Là dentro il bar funziona tutto il giorno. Andò in camera da letto, subito raggiunto dalla moglie. La culla di Danny era nell’angolo. Guido sollevò il velo d’organza e rimase a guardare. Il bimbo dormiva, placido. Gli passò un dito lungo la linea del naso.— Io vado — disse.Marisa lo afferrò per un braccio. — È ancora presto, Guido. — Farò a piedi un tratto di strada. Scusami, Marisa. Preferisco muovermi subito... — Va bene. Come vuoi. Ti chiamo l’ascensore. —Sul pianerottolo l’abbracciò. La teneva stretta stretta e continuava a ripetere: — Andrà tutto bene, vedrai, andrà tutto bene.

S’infilò nell’ascensore e pigiò sul pulsante. Marisa rimase immobile sulla soglia, la mano che si agitava appena nel saluto.

La gente. Parve a Guido che nelle strade quella mattina ci fosse più animazione del solito. Lungo la grossa arteria di scorrimento quattro corsie di elibus, a diversi livelli, trasportavano tonnellate e tonnellate di umanità sofferente. I portali di plastica dei Grandi Magazzini erano spalancati. Dentro, la folla girava tra i banchi, formava capannelli all’imbocco delle scale mobili che portavano ai piani superiori.

Guido procedeva lentamente, a piedi, lungo il marciapiedi fisso. La fettuccia scorrevole, due metri alla sua sinistra, era gremita all’inverosimile. Facce dure, impassibili, uomini impettiti che scivolavano via, chiusi nel guscio imperforabile dei loro pensieri.

Guardò l’orologio. Mancavano venti minuti alle nove, se avesse continuato a piedi non sarebbe arrivato in tempo.

Saltò sullo scivolo, ne discese all’angolo e salì alla seconda pensilina dell’elibus. Il veicolo giunse dopo trenta secondi, stipatissimo. Riuscì a salire con difficoltà, si spinse avanti aiutandosi coi gomiti e guadagnò un po’ di spazio, in piedi, accanto all’autista.

Un signore alto, coi capelli grigi, gli teneva puntata contro i fianchi la sua borsa di cuoio sintetico. Guido lo guardò. Un senso di invidia improvvisamente lo invase. Fissò l’autista, tutto concentrato nella guida. Invidiò anche quello. E gli altri, tutti gli altri che si accalcavano intorno. Era gente soddisfatta, quella. Senza problemi e preoccupazioni. Ma lui, lui, che razza di chimera s’era ficcato in testa! C’era sì e no una probabilità su dieci di superare l’esame, ora lo capiva benissimo. Tanto valeva tornare indietro. Rassegnarsi, promettere a se stesso che mai più avrebbe accarezzato simili illusioni.

Ma poi gli s’affacciò alla mente Marisa. E Danny.

Strinse i denti e proseguì.

Incontrò Alberto Vettori nel grande atrio della Sede Centrale.

— Salve, Alberici.

— Salve.

— Nottata in bianco, eh?

— Già! Non ho dormito affatto.

— Neanch’ io.

Entrarono nell’ascensore.

— Quanti siamo? — domandò Guido.

— Circa tremila.

— Uhm! I posti a concorso sono quarantacinque. Io... Io spaccherei tutto.

— Di’un po’... ti senti preparato? — domandò Alberto.

— Poco. Anzi ho la testa vuota, mi sembra di non ricordare più nulla, neanche le cose più semplici.

— È un’impressione. Sta tranquillo, vecchio, farai un esamone.

— E tu? Hai studiato, tu?

— Parecchio. Spero proprio di farcela.

Guido grugnì, l’altro si soffiò il naso e non aggiunse parola. Rimasero zitti fin quando l’ascensore non si fermò con un piccolo tonfo, subito seguito dall’apertura automatica della portiera di vetro opaco.

— Buona fortuna, Alberici.

— Buona fortuna.

Alberto Vettori si diresse a destra, Guido a sinistra. Prima di entrare nella grande aula bisognava espletare alcune formalità agli sportelli. Presentazione dei documenti, accertamento dell’identità, sorteggio del posto in aula e altre cose ancora.

Sorteggiò il numero 209. Un inserviente lo accompagnò attraverso le file degli scrittoi.

Il tavolo 209 era in fondo, accanto a uno dei pilastri laterali. Era un buon posto. Intendiamoci: Guido non aveva con sé libri di testo o appunti da tirar fuori al momento opportuno. Sapeva benissimo che era impossibile copiare o comunque comunicare con gli altri candidati. Le ultime file erano preferibili se non altro per una sorta di suggestione psicologica.

Sedette. Si guardò in giro per alcuni minuti scrutando le facce degli altri concorrenti. Poi ispezionò il tavolo. Le cartelline erano sulla sua destra. Conosceva il regolamento:  proibito toccarle prima del suono della campana. Sulla testata dello scrittoio c’era una fessura in comunicazione con una cassetta vuota chiusa a chiave, sotto il piano del tavolo. Avrebbe infilato lì dentro le cartelline degli elaborati, una ogni mezz’ora, tanto era il tempo concesso per ogni singola prova. Il sedile era fissato al pavimento. Dallo schienale partiva un’asta metallica che finiva ricurva sopra la sua testa. All’estremità dell’asta c’era una piccola camera televisiva e un microfono: in qualche lontana e sperduta stanza del Centro Tecnico Attitudinale, invisibili scrutatori avrebbero seguito ogni sua mossa, ascoltato ogni sua parola. Forse già stavano osservandolo. Guido s’accomodò il colletto della camicia.