Sorretto dalla stessa carica di ribellione anarcoide di Fight Club, con Rabbia. Una biografia orale di Buster Casey l’autore di Portland diventato ormai di culto ingaggia una duplice sfida, scegliendo per la sua storia romanzesca la forma insolita della “biografia orale” e affrontando con essa un riuscito connubio di alcuni dei temi classici della fantascienza.

Chi è davvero Buster Casey, detto “Rant”, il ragazzotto di provincia dai denti tutti consumati e schiavo di una singolare dipendenza dal veleno di aracnidi e serpenti, divenuto in breve il nemico pubblico n. 1 del governo per il suo ruolo di “superdiffusore” nell’epidemia di rabbia che sta decimando la nazione? Il libro è una raccolta di risposte a questa domanda dopo che Rant è scomparso nel nulla in seguito a uno spettacolare incidente stradale seguito dai media della città. Redatto con taglio pseudo-documentaristico, questo espediente conferisce un dinamismo cinematografico alla storia: l’impressione che si ha leggendone le pagine è infatti simile alla visione di un reportage giornalistico, in cui le diverse ricostruzioni dei vari testimoni si intrecciano, si contraddicono ripetutamente, si assestano sulle acquisizioni di un comune senso della storia e vengono quindi di nuovo messe in discussione dal tocco esperto del regista/autore. Giunto al suo ottavo libro, una soluzione di questo tipo rappresenta dal punto di vista strettamente letterario un interessante stadio nella carriera di Chuck Palahniuk, costretto per una volta a mettere da parte la sua voce ironica e inconfondibile. La necessità di lasciarsi attraversare dalle voci dei vari personaggi senza opporre il filtro del proprio obiettivo lo obbliga a una trasparenza che deve essere stata una delle principali sfide sostenute in fase di scrittura, impegnandolo in un tour de force nel quale Palahniuk può comunque dar sfoggio del proprio estro grazie alla declinazione delle diverse voci e dei diversi punti di vista che intessono la “biografia orale” di Buster Casey.

L’intenzione viene denunciata programmaticamente all’interno del volume stesso: quello dell’autore è un resoconto, un’inchiesta, un’operazione-verità sul tema dei viaggi nel tempo e sull’impiego strumentale del loro segreto da parte di un’oscura stirpe dagli attributi semidivini. Questi immortali chiamati “storici” se ne servirebbero per incrementare e preservare il proprio potere attraverso la duplice operazione di “rimpolpamento” (che consiste nel migliorare le proprie facoltà psicofisiche attraverso il ripetuto incrocio genetico con la linea femminile del proprio albero genealogico) e “risoluzione dell’origine” (l’eliminazione di un proprio antenato per garantirsi l’immortalità). Ma il libro è una concentrazione di colpi di scena e cambi di rotta, tant’è che parte da molto lontano approcciando il tema con una serie di passi successivi di avvicinamento. L’abilità dello scrittore si dispiega in tutta la sua potenza quando si tratta di tirare le somme dei dettagli seminati in precedenza e stringere il raggio della spirale a ogni nuovo giro, giostrando con grande maestria le tre parti in cui si può immaginare che sia idealmente divisa l’opera: una prima di ambientazione rurale in cui sono forti i richiami a Mark Twain, con il piccolo Rant che emula le imprese di Huckleberry Finn e semina scompiglio nella tranquilla vita di provincia di Middleton, assediata da branchi di cani affamati, morti misteriose e tornado sessuali; una seconda molto orwelliana dominata dall’immagine distopica della grande città, divisa in due zone rigidamente segregate non in senso geografico ma temporale; una terza che è una scorribanda finale sulle onde del tempo, così come essa può essere resa dalla molteplicità di punti di vista dei diversi personaggi, ciascuno attraverso il filtro delle proprie convinzioni, dei propri sospetti e dei propri secondi fini.

Palahniuk attinge con disinvoltura a un immaginario decisamente familiare al lettore di fantascienza, richiamandosi nella pratica del party crashing direttamente alla lezione di James G. Ballard e indulgendo per l’idea delle prese craniali e della tecnologia dei picchi incanalati nelle suggestioni cyberpunk mutuate dai romanzi di William Gibson e dalla trilogia cinematografica di Matrix: menzionare in questa sede almeno Crash, La mostra delle atrocità e la trilogia dello Sprawl (Neuromante, certo, ma forse soprattutto Giù nel cyberspazio) non sembra affatto inappropriato. La sua bravura gli consente di amalgamare questi ad altri stimoli, derivati da William S. Burroughs per la riflessione sul controllo e la dipendenza (e non credo nemmeno che sia un caso che, giunto in città, Rant trovi un impiego da disinfestatore, proprio come l’alter ego del profeta beatnik immortalato da Peter Weller nel Pasto nudo di David Cronenberg), da George Orwell per il meccanismo governativo di sottomissione delle masse (esplicito il riferimento a 1984 nell’acronimo ti-vedo con cui viene emblematicamente indicata la “Legge sul Traffico e l’Incremento della Viabilità e dell’Ordine”), da Ray Bradbury per l’abolizione dei libri comportata dall’introduzione dei picchi incanalati (Fahrenheit 451) e le piccole crudeltà celate dietro l’apparenza felice e spensierata dell’infanzia nelle comunità rurali. Ma i modelli si spingono oltre, dal citato Twain a Fëdor Dostoevskij, ai cui Demoni Palahniuk sembra ispirarsi per giustificare, almeno nelle prime battute, la storia tra due freak ai margini della società come Rant e Echo Lawrence. E nella cornice il tutto si lega alla perfezione con quelli che fin dagli esordi restano i suoi chiodi fissi: le comunità marginali qui ben rappresentate nella dicotomia tra Notturni e Diurni e le società clandestine d’ispirazione anarco-nichilista in forte contrapposizione con il sistema di potere (gli adepti alla consuetudine del party crashing).

Il colpo di genio più evidente risiede nell’uso metaforico del tempo, come frontiera da conquistare e strumento per imporre l’ordine. La sua concezione quasi territoriale rivela anche una grande e sorprendente affinità con le intuizioni di un autore italiano come Lanfranco Fabriani e le avventure dei suoi agenti segreti Lungo i vicoli del tempo. Nella finzione di Rabbia, storicamente tutto inizia con gli studi sull’effetto curiosità condotti dal governo attraverso gli uffici dei trasporti delle sue metropoli: “quegli ingegneri governativi, tra cui mia madre” spiega a un certo punto Echo Lawrence, “che andavano a schiantarsi gli uni contro gli altri per studiare gli effetti sul traffico”. Ma insieme ai dati sui livelli di flusso, sul volume orario, sull’ora di punta e sul deflusso del traffico, questi scontri intenzionali cominciano a dare agli ingegneri altro a cui pensare: “Ricordo quando mia madre mi diceva che qualcuno era sparito dall’ufficio, e io pensavo che intendesse perché l’avevano licenziato o messo in cassa integrazione”. In realtà, le sparizioni preludono a quello che la stessa madre di Echo definisce “pionierismo al contrario”, la possibilità per i soggetti coinvolti, se in una determinata condizione fisica (il contagio da rabbia) e in un preciso stato mentale (una trance in regime di onde theta), di saltare indietro nel tempo. Ben presto la voce si diffonde tra gli ingegneri del traffico, assumendo la valenza di una leggenda metropolitana, ma quando gli incidenti fuori controllo si intensificano e le sparizioni degli addetti aumentano, il governo è costretto a chiudere il programma. La Legge ti-vedo interrompe gli studi sull’effetto curiosità e impone la classificazione dei cittadini in un ben determinato status tra due possibili: i Diurni, che vivono e lavorano di giorno; e i Notturni, che invece escono dai loro quartieri-dormitorio solo nelle ore che vanno dal tramonto all’alba. Divide et impera: con questo provvedimento il governo spera di tenere sotto controllo il traffico delle grandi città e garantire l’ordine e la sicurezza nelle aree metropolitane della nazione. Ma in risposta a questa disposizione si diffonde la pratica dei party crashing: l’ideazione di fantasiosi e inoffensivi incidenti stradali per riappropriarsi del “tempo trascorso in auto”. Con queste premesse è inevitabile che, all’arrivo in città di Rant e con la diffusione epidemica dell’infezione di cui è portatore, il party crashing diventi il viatico per una riappropriazione del tempo tout-court, dove forse, secondo alcuni, già si annida tuttavia la casta degli ingegneri scomparsi nel nulla sedici anni prima, trasformatisi in un’élite di “storici” immortali.

La valenza metaforica della rabbia nell’uso narrativo che ne fa Palahniuk è abbastanza esplicita da sfolgorare come un simbolo di resistenza e ribellione. Se la realtà tradisce la propria natura di malattia, come recita lo strillo di copertina che riprende le ultime parole rilasciate dal suicida Rant Casey sulle frequenze di Radio Traffico Esplicito, allora si può pensare di sconfiggerla solo prevenendone il contagio attraverso una disciplina immunizzante di infezioni graduali. Il che è proprio ciò a cui Rant si sottopone fin da  bambino, costringendosi ai morsi e alle punture dell’intera fauna locale di Middleton fino a sviluppare un supervirus che condurrà a una vera e propria invasione di lupi mannari per le strade della nazione.

La varietà tematica dell’opera, come si può dedurre da queste brevi note, spazia su uno spettro piuttosto vasto. Anche in virtù di questo molteplici sono gli aspetti su cui l’autore richiama l’attenzione del lettore. Rabbia è un prodotto letterario paradossale e sofisticato, tanto complesso nella sua struttura quanto difficile da maneggiare, ma rendendo la lettura una sfida Chuck Palahniuk riesce a catturare il suo pubblico e a tenerlo incollato fino all’ultima pagina. Avendo dichiarato a più riprese la sua intenzione di proseguire l’esplorazione dei temi qui affrontati in ulteriori due libri, resta solo da vedere se nel corso della trilogia l’autore vorrà dare una risposta ai nodi rimasti insoluti. Per quanto mi riguarda, le premesse gettate con questo libro sono sufficienti per spingere le aspettative ai massimi livelli.