John aprì lentamente gli occhi. L'emisfero interno della capanna era di un colore bianco-gesso. Dalla sommità della volta si diramava, per tutta la superficie concava, un sottile disegno a spirale di colore rosso vivo. Gli sarebbe piaciuto accertare che razza di colorante usavano per ottenere un si­mile effetto. La femmina aviana, non distante da lui, se ne stava accoccolata sul pavimento.- Devo trovare un nome da darti, - disse John.

Ricordava perfettamente la ridda di discussioni causate dal rapporto Fesbury. Uno di quei professori aveva avanzato una teoria della genesi di quel popolo umanoide che suonava all'in­circa così: “Sappiamo che nella maggior parte dei ‘phila’ evolutivi, compreso quello terrestre, gli uccelli non derivano direttamente dai rettili volanti, bensì da forme di rettiloidi arboricoli saltatori da un ramo all'altro, che finiscono per sviluppare membrane e successivamente ali vere e proprie. Gli aviani possono quindi derivare da forme arboricole di qua­si-uccelli che, ad un certo punto della loro evoluzione, hanno imboccato un'altra direzione."

- All'inferno, - concluse Wheeler. - A pensarci bene, non sono più strani di un uomo che discende dalla scimmia.

Le piante dalle lunghe foglie a nastro non erano alberi e non erano cespugli. Da un ceppo comune si dipartivano cinque o sei rami-fusti spinosi che sembravano una via di mezzo tra il rovo e il bambù.

Avanzare in mezzo a quella vegetazione non era molto agevole. John Wheeler dovette più di una volta lavorare di machete. Ma quella fatica non aveva importanza. Il terrestre continuò ad avanzare faticosamente, facendosi strada tra gli intrichi delle foglie a nastro. Aveva uno scopo preciso: per qualche tempo doveva rimanere lontano dal villaggio degli aviani. Aveva bisogno di solitudine. Doveva riflettere. Gli si erano presentate diverse circostanze sulle quali occorreva prendere una decisione.

Innanzitutto, la missione. Ora che il primo passo era stato compiuto, avrebbe dovuto mettersi in contatto con la Terra, e darsi da fare con gli indigeni. Tentare di trovare una base comune per stabilire rapporti culturali, commerciali e turisti­ci, o qualcosa di simile. In fondo non era per sport, ma per necessità vitali, che l'umanità stava colonizzando la ga­lassia. Ma John, fino a quel momento, non aveva fatto e non stava facendo nulla di tutto ciò che avrebbe dovuto. Se, al­meno per il momento, non c'era niente di utile da concludere con gli aviani, avrebbe dovuto iniziare il viaggio di rientro. Ma, dannazione, era mai possibile che la sonnolenza e l'apatia di quel villaggio di pidocchiosi alieni stesse contagiando anche lui?

Ecco, un essere umano è un essere umano, e dopo il lun­go viaggio nel buio degli spazi, e nella ristrettezza dell'abita­colo della Victoria, la tentazione di lasciarsi andare, tra quel verde luminoso, quella tranquillità, quella specie di versione aliena dell’«ultimo paradiso», era veramente troppo forte. L'altro problema era rappresentato dalla femmina aviana: Sheila.

Aveva deciso di chiamarla Sheila in ricordo di un amoretto di gioventù. E poi, il nome Sheila le si adattava perfettamen­te... John era stato per mesi in solitudine, senza compagnia femminile, nello spazio e sui pianeti, e non una ma molte volte. Eppure non per questo gli erano mai venuti desideri pervertiti nei riguardi delle femmine aliene... ma, ecco... do­veva essere lo sguardo di Sheila, quegli occhi così sconcertan­temente umani... E poi, al diavolo, se a lei piaceva accudirlo e vezzeggiarlo, facesse pure! Da lui, però, più della compagnia non avrebbe certo ottenuto. Senza contare che, quando fosse tornato sulla Terra, non avrebbe mica potuto portarsela die­tro.

Quando fosse tornato sulla Terra! Chissà perché questa prospettiva gli appariva tanto remota. Certo, avrebbe potuto ripartire anche subito, volendo... volendo...