Lo lascio accartocciarsi, sarà per poco. Domani, o fra un'ora, la sua minuscola anima avrà già messo insieme qualche filosofica, letteraria giustificazione. Per rispetto verso la sua vittima faccio uscire l'ammutolito ospite. Non assisterà all'angoscia di Kalis per l'approssimarsi di cure che lo stremano, o al suo sonno dagli infiniti incubi che lo annientano.Hanno chiesto la collaborazione di Ain. Dimostrazione eloquente della disperata inanità dei responsabili della vita di Kalis. Trovo nella stanza Ain sbigottita e una folla di tecnici e infermieri che frenetici portano, spingono, accostano macchine e strumenti... Dopo averle messo, mi sembra, praticamente a disposizione l'intero ospedale, lasciano, Ain è categorica, la camera. Mi aspetto uguale trattamento, ma, con un cenno, lei mi concede di restare. Si accinge a esaminare Kalis. Lo vediamo tremante per i preparativi. Una morsa mi chiude lo stomaco mentre tento di non immaginare quali spaventevoli ricordi vi associa. Lei, con gesti secchi e rapidi, più utili delle spiegazioni, spegne gli strumenti, sebbene diversi da quelli della memoria del suo paziente, appena attivati. Aspetta poi, senza toccarlo, che per lo scomparire dei nuovi rumori e per il tono dolce delle sue parole egli si quieti. Anch'io ho imparato la frase che a Mist le interruppi sulle labbra e saprei ripetere a Kalis di non avere paura. Preferisco tacere e guardare. Lo visita con gesti antichi e delicata, profonda competenza. Al termine gli parla ancora. Egli trova per lei un sorriso. Gentile e lontano. Così sappiamo di non avere speranze.Bollettini quotidiani sullo stato di salute dell'incolpevole cavia sono ormai diffusi oltre i già grandi confini degli Stati dell'Hansa. E ogni giorno, per entrare, a fatica fendo e mi faccio largo, con rabbiosa amarezza - forse è la stessa gente che urlava vendetta nei giorni del processo - in una folla che, commossa, staziona davanti all'ospedale.Gli scoraggiati responsabili di questa Unità di Terapia Intensiva sperano di rallentare la fuga mortale del famoso paziente con maggiori e più precise informazioni. Così giungono i due medici che si alternavano nel presiedere gli interrogatori e qualcuno del Laboratorio di Ricerca. Vedo Lug, rimanendo distante come me per l'intera durata dei cerimoniosi saluti, non staccare lo sguardo dalle loro mani. La parte oscena del loro corpo. Poi scateniamo una discussione accanita, ma dobbiamo cedere. Non possiamo risparmiare a Kalis di vederli, riesco a imporre però, ho la mia voce e i modi peggiori, che non lo sfiorino. La loro consulenza è, naturalmente, fallimentare. Lug, chiesto il mio permesso, lascia l'ospedale dando minime spiegazioni.

Ha gli occhi chiusi, lo credo incosciente così gli parlo. Senza pause, un po' farneticando. Gli parlo di quando guiderà la mia Friagabi e di quanto lo scoprirà facile per un pilota in gamba come lui. Gli parlo di cieli, di libri, di amore, di fiori, di vino. Gli parlo di Rheya. Gli parlo di me. Non deve morire. Apre gli occhi e dalla smisurata distanza della sua lunga abitudine al dolore mi guarda. Con pietà. Poi riabbassa le palpebre, stanco.

Lug è tornato. Fermo sulla soglia, si guarda gli stivali sporchi di fango, le condizioni pietose dell'uniforme, come chiedendo permesso al pavimento immacolato, alle pareti asettiche. Inequivocabile sintomo dello stato mentale dei medici è il loro immediato invitarlo, anzi incitarlo, a entrare.

Egli si avvicina mostrandoci il contenuto della sua giubba avvolta a fagotto. Un cucciolo. Nero, dagli occhi infiniti. Perfettamente a proprio agio nella tenera stretta che lo sorregge. Lo deponiamo su una lettiga che spingiamo piano accanto al letto mentre Lug sussurra a Kalis - L'ho rubato. Che nome vuoi dargli? - Il movimento è dolce, ma sufficiente a farlo cadere buffamente seduto, mostrandoci l'interno delle piccole cosce e il glabro ventre roseo su cui un innestato trasmettitore di dati vi spicca nella sua forma poligonale. Osservo meglio i suoi occhi così grandi. Sono, trapianto accurato e recente, rilevatori di minerali. Lug solleva con delicatezza la mano di Kalis meno imprigionata dai tubi e la posa sul dorso dell'animale. Il pelo morbido e scuro spunta fra le dita esangui come erba nuova. La nostra speranza è lancinante. Ma la mano resta immobile. Poi, per inerzia, scivola e cade. La bestiola si sta annoiando e muove verso il bordo della lettiga. Raggiunto il limite continua a camminare oltre, ma una mano, bianchissima e scarna, lo ferma e afferra prima del vuoto. E, piano, lo accarezza. Kalis ha scelto. Anch'io. E, sorprendendomi per l'inaspettato tepore di una pelle di marmo che per la prima volta sfioro, penso che ora, forse, avremo più tempo per un utile rimorso.