Ogni tanto capita di leggere un libro che, pur non trattando per nulla di fantascienza, viene naturale associare al nostro genere narrativo preferito. Mi è capitato, recentemente, con la lettura del saggio di Che fine ha fatto il futuro? di Marc Augé, pubblicato dalla Eleuthera.

Sgombriamo subito il campo da equivoci: non è un libro di futurologia ne uno di quelli che da risposte a domande del tipo “Chi siamo? Cosa facciamo? Dove andiamo?”. Ma è sicuramente un libro che apre letteralmente la mente a ragionamenti e considerazioni sulla nostra vita e su una categoria, quella del tempo, con cui volenti o nolenti dobbiamo fare i conti, verrebbe da dire ironicamente, tutti i giorni.

Marc Augé è un antropologo francese che oggi si occupa soprattutto di studiare la società contemporanea. A tal proposito, lo studioso ha coniato il termine surmodernità per indicare l’ulteriore evoluzione della nostra società da quella postindustriale e postmoderna a quella totalmente globalizzata. Nell’epoca della surmodernità, allora, l’antropologo ipotizza che si stanno ridefinendo alcune categorie fondamentali per dare un senso alla nostra vita, come ad esempio quelle dello spazio e del tempo.

Ad esempio, l’antropologo ha coniato il termine “non luoghi” per indicare quegli spazi solitamente negati agli incontri, come gli aeroporti, i vagoni della metropolitana, i centri commerciali. Luoghi che vivono di un paradosso: sono anonimi e ci spersonalizzano (la nostra identità si perde nella folla), ma sono anche familiari, ci rassicurano.

In Che fine ha fatto il futuro?, attraverso una serie di riflessioni che qui dobbiamo necessariamente sintetizzare, Augé sottolinea che il tempo non ha più un senso, non sia formato da un passato e da un futuro, viviamo cioè in una sorta di dittatura del presente.

Per dirla in altri termini, non siamo più capaci di guardare al futuro che è scomparso dalla nostra vita. Ecco cosa scrive Augé: “(…) tra l’opprimente imprevedibilità di un futuro infinitamente aperto e tuttavia senza avvenire e l’ingombrante molteplicità di un passato ritornato a essere opaco, il presente è diventato la categoria della nostra comprensione di noi stessi”.

Un tempo, il futuro era sinonimo di speranza, pur nella sua imprevedibilità e indefinibilità. Oggi, invece siamo schiacciati sul presente, sul qui e ora, senza neanche – ci segnala Augé – far tesoro del passato e della Storia, quella con la S maiuscola.

“Da uno o due decenni – sostiene Augé – il presente è diventato egemonico. Agli occhi dei comuni mortali esso non è più frutto di una lenta maturazione del passato, non lascia più trasparire i lineamenti di possibili futuri, ma si impone come fatto compiuto, schiacciante, il cui improvviso sorgere fa sparire il passato e satura l’immaginazione del futuro”.

Concetti affascinanti che in qualche modo rimandano alla crisi della science fiction come genere narrativo. I motivi per cui non si legge fantascienza – nel nostro Paese, come anche negli Stati Uniti e nel resto del mondo occidentale – sono tanti, ma tra i primi, a nostro avviso, può essere inserito anche ciò che descrive Augé nel suo volume. Non siamo in grado di guardare, di immaginare il nostro futuro, quello dell’umanità, perché troppo pressati dal presente e allora perché dovremmo leggere della narrativa che specula proprio sul futuro? Una letteratura che ha come presupposto di base l’immaginazione del futuro dell’uomo?

Certo dovrebbe innescarsi anche qui un corto circuito paradossale: se nella nostra vita manca l’immaginazione verso il futuro, la propensione a guardare al di là del presente, allora forse potrebbe far comodo farci aiutare da chi il futuro lo immagina nel proprio lavoro. Dagli scrittori ai registi fino ai creativi della televisione e del fumetto, senza dimenticare i videogiochi. Ma probabilmente manca nel lettore medio – o nell’uomo medio, per dirla con lo studioso francese – la volontà a lasciarsi cullare da un futuro, uno qualsiasi, poco importa se immaginato da noi o da altri.