Bisogna arrivare al 1958 con La morte viene dallo spazio di Paolo Heusch per vedere il

primo tentativo di space opera italiana, nel quale la trama fantascientifica viene portata in primo piano anziché costituire lo sfondo. Un missile a propulsione atomica viene lanciato per arrivare sulla Luna ma, in seguito a un guasto, finisce per colpire un grosso asteroide i cui frammenti rischiano di distruggere la Terra. Per salvare l’umanità i governi reagiscono lanciando tutti i missili atomici di cui dispongono contro i frammenti. Coproduzione italotedesca, il film conteneva una chiara critica alla proliferazione delle armi nucleari da parte delle super potenze. Nonostante diverse ingenuità nella trama e nella realizzazione, il film ebbe un buon successo tanto da essere proiettato nel 1961 anche negli USA, con il titolo The day the sky exploded, primo caso in assoluto e dimostrazione che la fantascienza italiana poteva farsi valere quando si rifaceva agli stilemi puri del genere. Lo schema del film venne ripreso nel 1979 dal disaster movie Meteor, interpretato da Sean Connery. Gli anni cinquanta e sessanta però, se per la fantascienza d’oltreoceano rappresentano l’età dell’oro, nel nostro paese sono soprattutto gli anni della grande tradizione della commedia all’italiana, e sono poi caratterizzati dall’esplosione del gigantesco fenomeno dei b-movie, ovvero imitazioni a basso costo delle grandi produzioni di Hollywood che non di rado vengono girate a Cinecittà. In quegli anni nascono i peplum del filone storico e mitologico, i cloni dei grandi film di guerra, gli spaghetti-western, le spy-story ispirate alla saga di James Bond. Tanti film girati con pochi mezzi e con grande rapidità da registi di mestiere, dotati di fantasia e di quel tanto che basta di spregiudicatezza per passare dalle riprese di un western al mattino a quelle di un film di cappa e spada nel pomeriggio, spesso utilizzando lo stesso cast. A questo punto il cinema di fantascienza italiano si trova davanti un bivio: essere risucchiato nella corrente dei cloni a basso costo, oppure tentare la strada di un’originalità tutta da costruire senza perdere però i tratti che meglio caratterizzano il genere, la speculazione scientifica e avventurosa e il sense of wonder che caratterizzava le pellicole del periodo. La soluzione al dilemma è, e non può essere diversamente, molto italiana: percorrere contemporaneamente i due percorsi con risultati, purtroppo, discutibili in entrambi i casi. 

Il “traino” americano

Si assiste così, da una parte, alla proliferazione di filmetti artigianali, ingenui e a tratti imbarazzanti. Operine nate per sfruttare la scia commerciale dell’ultima pellicola americana di successo, o per accontentare le voglie o le bizze del produttore/attore di turno, o magari più semplicemente per sfruttare scenografie e attrezzature già utilizzate che giacevano inutilmente nei magazzini. Film di questo genere sono stati terreno di caccia per produttori arruffoni e registi “sbarazzini”, che si facevano pochi scrupoli nell’imbastire prodotti che oggi si definirebbero ad alta fruibilità e very low cost. Sono gli anni di registi come Pietro Francisci, Hugo Grimaldi, Paolo Bianchini, e del più popolare fra tutti, Antonio Margheriti. È infatti entrata nella leggenda la sua impresa, eseguita con lo pseudonimo di Anthony Dawson, che nel 1965 lo portò a realizzare ben quattro film (I criminali della galassia, I diafanoidi vengono da Marte, Il pianeta errante, La morte viene dal pianeta Aytin) in appena tre mesi, girando nello stesso giorno scene per film diversi, riciclando scenografie e costumi, rubacchiando alcune sequenze da altri film (uso questo entrato in voga con le scene di massa per i peplum, che costavano troppo), e dirigendo gli attori secondo il metodo sintetizzato nella famosa battuta: “Buona la prima!”. Questi e altri progetti si dibattevano tra storie traballanti, dialoghi da parodia, realizzazioni grossolane, montaggio inesistente: eppure non di rado vedevano la partecipazione di attori di grande professionalità (Franco Nero, Lisa Gastoni), e gli effetti speciali, pur se realizzati con artigiana innocenza, mostravano tutta l’italica fantasia unita alla capacità di suscitare meraviglia con pochissimi mezzi. Questi film costituirono una robusta palestra per molti che trovarono spazio e fortuna nei decenni successivi; un nome per tutti, quello di Mario Bava, già responsabile degli effetti speciali nel film di Heusch e poi regista in Terrore nello spazio del 1965, film che riusciva ad alzarsi sopra la media. Bava si specializzò successivamente nell’horror e nel thriller, genere in cui ha lasciato una traccia importante, tanto che registi del calibro di Martin Scorsese, Tim Burton e Quentin Tarantino hanno dichiarato di essersi più volte ispirati al suo lavoro.