Paolo Lanzotti è nato a Venezia nel 1952, dove vive e lavora. È laureato in filosofia e quando non scrive fa l'insegnante. Ha una certa passione per il teatro, la musica classica e la barca a vela. Il suo vecchissimo interesse per l'informatica lo ha portato a essere quasi un pioniere nell'uso del computer nella didattica. La sua bibliografia non è vastissima. Limitandosi ai volumi usciti negli ultimi anni citiamo Le parole magiche di Kengi il Pensieroso e Il segreto dello scriba, editi entrambi da Piemme, poi tradotti e pubblicati anche in Spagna, Due misteri per Kengi il Pensieroso, pubblicato dall'Editoriale l'Espresso e Il magico Mondo di Honn pubblicato da Albatros il Filo. Ha vinto ex aequo con Clelia Farris la prima edizione del Premio Odissea con Il segreto di Kregg, pubblicato dalla Delos Books. Lo abbiamo intervistato proprio in occasione dell'uscita del suo romanzo in tutte le librerie.

La prima domanda è d'obbligo: come ti sei avvicinato alla fantascienza? Intendo soprattutto come lettore...

Ho cominciato a leggere sf letteralmente da bambino. Ovviamente non ricordo l'esatto "momento magico" in cui ho fatto la scoperta (è passato troppo tempo), ma ricordo bene che verso i sette/nove anni, ho chiesto in regalo alcuni libri di sf per ragazzi, con preoccupata sorpresa dei miei genitori e grande disappunto della mia maestra. Quest'ultima mi fece una severa ramanzina, dilungandosi sulla scadente qualità letteraria dei "polpettoni" fantascientifici, sulla loro infantile mancanza di realismo e sul fondo diseducativo della loro tipica trama popolar-avventuroso-fumettistica. Io ascoltai, mogio mogio, senza rispondere. Poi tornai a casa, mi chiusi in camera mia e lessi i romanzi d'un fiato. La sensazione di aver scoperto un mondo meraviglioso fu così forte che ancora oggi, pur non ricordando di quei romanzi né i titoli né gli autori, rammento perfettamente alcuni episodi e alcune ambientazioni. Ricordo perfino il nome di un metallo (il berillio) che non avevo mai sentito nominare, ma che era citato in uno dei racconti. Il mio amore per la sf è cominciato così. O meglio, così si è consolidato in modo definitivo. Gli anni successivi sono stati un braccio di ferro tra me, che compravo e divoravo quintali di Urania e di Cosmo usati (prezzo, 50 lire) e gli adulti che cercavano in tutti i modi di convincermi a leggere qualcosa di meglio. Più tardi ho scoperto d'essere assolutamente onnivoro e ho preso a leggere di tutto. Ma non mi sono mai pentito, né vergognato di quei lontani esordi semi-clandestini. Quindi, quando ho deciso di mettermi a scrivere è stato pressoché inevitabile cominciare con la sf. A quel punto il "partito dei denigratori" si è preso una bella rivincita sulla mia testardaggine infantile e adolescenziale, facendomi provare spesso la rabbia di sentirmi dire con aria di sufficienza: "Ah, tu scrivi quella roba. Perché non provi con qualcosa di serio?". Ma questa è un'altra storia.

Hai cominciato a scrivere intorno alla metà degli anni Settanta e hai fatto parte del gruppo che diede vita alla fanzine padovana The Time Machine, che ha lanciato tanti autori. Ci racconti un po' i tuoi esordi e l'atmosfera che regnava in quel periodo intorno a TTM e alla fantascienza italiana?

È vero. Faccio indegnamente parte degli autori lanciati da "The Time Machine", di cui conservo ancora le copie: incredibile testimonianza di come, a quel tempo, si potessero fare i miracoli con un ciclostile e tanta passione. Devo proprio a questa gloriosa fanzine se ho scoperto d'essere un potenziale scrittore e se ho trovato il coraggio di fare i passi successivi. I miei esordi sono stati abbastanza scontati. Molto lavoro, qualche soddisfazione, parecchie delusioni. Come tutti ho dovuto imparare il mestiere e ho impiegato alcuni anni per raggiungere la sufficienza. Di quel tempo ricordo la confusa sensazione d'essere in guerra (con me stesso, con la scrittura, con le mie capacità, col mondo). La frustrazione di avere mille storie da raccontare e non riuscire a farlo in un modo decente. L'ansia di pubblicare a tutti i costi, perché la pubblicazione era la sola "prova" tangibile del fatto che io non fossi solo un povero illuso. E poi le prime soddisfazioni di un certo spessore, tra cui un paio di premi arrivati proprio da "The Time Machine".