Il Cantico non ha esaurito la sua drammatica forza tematica; ma non è sostituendo il pericolo nucleare alle minacce del terrorismo che ne riscopriamo l’attualità. Non conta quanto grande sia lo sforzo d’immaginazione: dell’alienazione della guerra fredda cogliamo, al più, residui fatiscenti, filmici, artefatti. No: il tema portante impone, al di là degli steccati politici e delle convinzioni religiose, una riflessione sull’orizzonte della nostra cultura. Il romanzo è l’affresco di un’umanità condannata all’estinzione, vittima di una cultura che ha dimenticato stessa. Intellettuali e scienziati sono schiavi delle meschine aspirazioni della macchina dello stato, giustificano – fino a veicolare- la logica corrotta del potere. Ed il progresso, allora, si trasforma in morte e ingiustizia sociale, produce deformità grottesche, ignoranza.Oltre mezzo secolo dopo Un Cantico per Leibowitz sappiamo bene quanto sia facile affacciarsi all’abisso dell’estinzione. Non occorre immaginare alcun conflitto nucleare, perché non è solo con la guerra che la nostra cultura compromette l’equilibrio della natura. Produrre indiscriminatamente, ignorando ogni sviluppo sostenibile equivale ad edificare la nuova Babele. Può dirsi mutato, dunque, lo strumento dell’apocalisse (lo è poi davvero?), ma le domande, oggi come ieri, restano le stesse: siamo bloccati in un ciclo entropico? il nostro sforzo, sostanzialmente laico, di produrre progresso e di migliorare sensibilmente le nostre condizioni di vita, è condannato a produrre inevitabilmente vittime?