Nel 1950 iniziò a lavorare per le ferrovie - come suo padre prima di lui - e, come sappiamo,

intraprese l’attività di scrittore. Si occupò anche di sceneggiatura, scrivendo alcuni episodi di Captain Video and His Video Rangers, una serie tv a basso costo che tuttavia vantò autori del calibro di Arthur C. Clarke, Damon Knight e Isaac Asimov. Fino al 1960 scrisse racconti (per un totale di circa quaranta titoli), intervallando momenti di grave depressione a successi personali e prestigiosi riconoscimenti. Con il racconto Darfsteller, nel 1955 si aggiudicò lo Hugo Awards nella categoria racconti brevi. Tra il 1955 e il 1957, pubblicò in forma di racconti Un Cantico per Leibowitz sul celebre The Magazine of Fantasy and Science Fiction. Nel 1959, pesantemente rimaneggiato, il Cantico conobbe la sua edizione definitiva, che, come vedremo, ha ancora tanto da dire e tanta polvere da sollevare.Miller non pubblicò mai alcun romanzo, né riuscì a completare il seguito del suo unico ciclo narrativo (sarà Terry Bisson, nel 1997, a terminare Saint Leibowitz and the Wild Horse Woman). Incastrandosi tra due dei cinque premi vinti da Heinlein (Fanteria dello Spazio, 1960, e Straniero in Terra Straniera, 1962), Un Cantico per Leibowitz primeggiò come racconto agli Hugo Awards nel 1961, guadagnando fama e fortuna. Di sicuro Miller non ne ricavò agiatezza economica, come la maggior parte degli autori di quella generazione: si mantenne grazie alla pensione di ferroviere e ricorse alla Social Security per assicurarsi un adeguato vitalizio.Tormentato, inquieto, negli ultimi decenni si allontanò da amici e parenti trasformandosi in uno scorbutico eremita. La morte di Walter Miller riporta alla mente il tragico epilogo di Robert E. Howard, di Hemingway: sconfitto dalla depressione, si tolse la vita con un colpo d’arma da fuoco nel gennaio del 1996. Morì l’eremita, il ferroviere, il soldato e il padre di famiglia. Ma lo scrittore di fantascienza sopravvisse: dialoga ancora con i suoi tanti lettori, attraverso le pagine del Cantico e dei suoi racconti.

Nel 1959 Miller rimaneggiò fortemente le versioni originali dei racconti, concependo sì un’opera unica, ma ancora divisa in tre parti teoricamente indipendenti (Fiat Homo, Fiat Lux e Fiat Voluntas Tua), alla stregua di Cronache Marziane di Ray Bradbury. Grazie alla revisione, l’autore approdò ad un discreto realismo e ad una notevole “compattezza tematica” dell’ambientazione, che perde smalto, forse, solo nell’ultima parte. Il lavoro di ricerca storica appare decisamente accurato. I primi due racconti ripercorrono in modo convincente l’età tardo antica e medioevale (Fiat Homo) e il rinascimento (Fiat Lux), nel quale Miller fa coesistere elementi medioevali e caratteri tipici dell’età moderna (dalla raffinata diplomazia allo spionaggio, dalla figura dell’intellettuale laico alle innovazioni belliche). Saccheggiò il latino dalle sacre scritture e dalle cerimonie liturgiche cattoliche per dare dignità linguistica e omogeneità ai racconti; riuscì comunque a non appesantire l’ossatura, peraltro avvincente, della fiction. La suggestione del latino è più incisiva per un lettore madrelingua anglofono (sebbene risulti pur sempre godibile) e scade solo di rado nell’effettismo fine a sé stesso.