L’altro allargò le braccia. – Forse no – ammise. – Ma c’è dell’altro. Non dimentichi che la maggior parte dei pericoli per la sicurezza americana deriva proprio da cittadini americani, o da persone che hanno regolare permesso di soggiorno nel nostro Paese. In Cina le cose sono un po’ diverse.– Perché i Cinesi sono più attenti di noi?

– O più intolleranti – precisò Marler. – Gli Stati Uniti sono vittima dei loro stessi principi ipocriti, come la tolleranza e l’integrazione multi-culturale. Apriamo le porte al nemico e lui non si fa pregare per colpirci, com’è naturale che sia.

Robert rimuginò sulle parole del suo superiore. Non poté evitare di rivedere nella sua mente la struttura meccanica del satellite cinese, così rudimentale e titanica. Un dato di fatto troppo forte per non fargli sorgere dubbi a proposito della presunta singolarità tecnologica cinese.

– Capisco – disse invece, sovrappensiero. – Perciò in Cina le cellule terroristiche attecchiscono più difficilmente che da noi.

Marler annuì: – Direi di sì.

Eppure c’era quella corona cilindrica rotante: un trionfo di attriti, usure meccaniche e approssimazioni dozzinali.

– Mi è difficile pensare alla collaborazione cinese come a una fortuna per noi.

Il professore accennò un sorriso privo di qualsiasi impronta di allegria.

– In questa faccenda potrebbe esserlo sul serio – asserì. – Forse per la nostra economia la Cina rappresenta un flagello, ma nella lotta al terrorismo sta dalla nostra stessa parte.

– E soprattutto investe capitale, giusto?

L’espressione di Marler si fece decisamente più divertita. – Vedo che sta cominciando a capire come funzionano le cose in certi ambienti – osservò. – In effetti qui per qualche decina di milione di dollari saremmo disposti a vendere l’anima al diavolo senza pensarci su due volte.

– È quello che stiamo facendo?

Marler alzò le spalle. – Non lo so – strappò la chiavetta dalla fessura e se la rimise in tasca. – E forse è meglio non pensarci, se vogliamo evitare di rovinarci la giornata. Torniamo a lavorare?

Robert annuì. – Ha ragione, meglio non pensarci – accartocciò il bicchiere di carta vuoto e lo gettò in un cestino poco distante. – Grazie per il caffè.

La Mecca delle Nuvole occupava una porzione variabile nell’etere.

Era l’unico luogo dove si potesse incontrare il Grande Hassan, colui che si era assunto l’incarico di guidare la Nuova Jihad.

Per la Causa lui aveva rinunciato alla propria umanità, o forse aveva semplicemente raggiunto una dimensione superiore di essa. Ora il Grande Hassan era solo pensiero irradiato da una sorgente organica alimentata artificialmente. Nessuno avrebbe mai potuto trovarlo, a meno che non fosse stato lui a volerlo.

Il pensiero rimbalzava come una palla da biliardo tra ripetitori distribuiti in modo difforme sul globo e si propagava attraverso direttrici mutevoli. Difficile capire dove si trovava la sorgente, in mezzo a tutti quegli specchietti per le allodole.

E ancora più difficile sarebbe stato individuare il residuo corpuscolare pulsante del Grande Hassan affidandosi alla semplice analisi probabilistica. Si trattava di una probabilità che poteva essere approssimata a quella di trovare un corpo puntiforme sulla superficie di un poligono: infinitesima. E infinitesima di un ordine superiore a quello che avrebbe comportato il ritrovamento di un granello di sabbia su una spiaggia.