Nel 1977, la rivista di fantascienza americana Locus pubblicò un breve trafiletto in cui si annunciava che dietro lo pseudonimo maschile di James Tiptree Jr. si nascondeva la psicologa americana Alice Bradley Sheldon. Per il mondo della science fiction fu un piccolo shock. Dietro a bellissimi racconti come La ragazza collegata e Houston, Houston, ci sentite si nascondeva una donna. Piccolo shock, dicevamo, perché la storia della fantascienza è ricca di autrici che hanno usato pseudonimi maschili, solo per pubblicare, solo per il fatto che lo pseudonimo era imposto dagli editori, convinti che le vendite sarebbero calate se il nome in copertina era di una donna o che, comunque, un genere come la fantascienza non poteva essere scritto da una donna.

Singolare, ad esempio, il caso di Catherine Lucille Moore che nel 1933 sul pulp magazine Weird Tales firmò il suo primo racconto con il nome di C.L. Moore e anche se solo dopo un anno fu rivelato che era una donna, per molto tempo rimase la convinzione – sia tra i lettori sia tra gli addetti ai lavori - che si trattasse di un uomo. Basta pensare che il suo futuro marito, lo scrittore Henry Kuttner - con cui la Moore diede vita a un sodalizio artistico molto fruttuoso – scrisse una lettera alla Moore, nel 1936, rivolgendosi a Mister C.L. Moore.

Nel caso di James Tiptree Jr. il mistero era ancor più fitto perché non si conosceva nulla della sua vita. Qualcuno favoleggiava che si trattasse di una spia, che, per ovvi motivi, non poteva rivelare la sua identità. Le uniche due cose sicure erano che aveva un meraviglioso talento per scrivere storie di fantascienza e un indirizzo: una casella postale vicino a Washington, a poche miglia dal Pentagono (fatto che alimentava ancor di più l’enigma).

Fan e colleghi scrittori si chiedevano: chi era James Tiptree Jr.? Perché non si faceva mai vedere a una convention o a un qualsiasi evento pubblico? Qualcuno aveva avanzato l’ipotesi che dietro quel nome maschile si poteva celare una donna, ma la gran parte di quelli che leggevano science fiction in America e nel mondo, associava al nome di James Tiptree Jr. un volto maschile.

Due casi – quelli della Moore e di Alice Bradley Sheldon – in qualche modo emblematici della condizione delle scrittrici femminili nel mondo della fantascienza, costrette a far circolare le proprie opere con nomi maschili, di fatto mortificando la propria identità.

Anche in Italia, Roberta Rambelli, traduttrice, scrittrice e promotrice di molte iniziative editoriali – tra le altre ricordiamo almeno la sua curatela delle collane Galassia e Science Fiction Book Club per la casa editrice La Tribuna – scrisse negli anni Sessanta molti romanzi, pubblicati con i più disparati nomi (John Rainbell, Robert Rainbell, Joe C. Karpati, Hunk Hanover, Rocky Docson) nella collana I romanzi del Cosmo della Ponzoni Editore, perché allora era in voga soprattutto l’uso dello pseudonimo per gli scrittori italiani, che secondo gli editori non erano accettati dai lettori. Pregiudizio durato molto a lungo.

Di esempi se ne potrebbero fare tanti, sia nella storia della fantascienza americana sia in quella italiana, ma quelli fatti ci sembrano abbastanza indicativi del fatto che la fantascienza all’inizio della sua storia era considerata decisamente cosa per “maschi” e – pur supponendo che la maggior parte dei lettori fossero maschi e bianchi - la raffigurazione della donna nell’immaginario letterario fantascientifico era decisamente “maschio-centrica”. Basta pensare alle sgargianti copertine dei pulp in cui campeggiavano belle ragazze in abiti succinti, o addirittura in bikini per rendersi conto di tale tendenza, o al fatto che le donne erano descritte - nel migliore dei casi - come comprimarie senza cervello e semplicemente inserite nelle storie per permettere all’eroe maschio di turno di poterla salvare dalle grinfie del cattivo di turno, preferibilmente alieno.