Frak Earth.

La scritta campeggia nel cuore di ogni sopravvissuto della flotta, ed è il marchio dell’angoscia che non lascia più alcuna speranza per il futuro.  Con questo inizio di mid-season Ronald D. Moore esplora gli antri più reconditi della disperazione umana sfornando una puntata granitica, intensa e durissima che colpisce dritto al cuore e alla mente dello spettatore.  Le aspettative su quest’ultima parte di stagione che porta al rush finale erano altissime, e con questa Sometimes a Great Notion non vengono minimamente disilluse.  Sin dal momento dell’olocausto un’intera popolazione si era aggrappata disperatamente al filo della speranza, la speranza di un futuro, la speranza di riottenere un’esistenza, ma come spesso accade la conoscenza e la verità rappresentano un macigno in grado di far annegare anche gli spiriti più forti.  La verità sbattuta in faccia come uno schiaffo è quella che la terra promessa non è altro che una landa desolata e devastata da un conflitto termonucleare che la rende inabitabile.

La puntata era attesissima anche perché finalmente ci avrebbe rivelato la verità riguardante il quinto dei final 5, l’ultimo silone la cui identità ci era ancora nascosta.  La rivelazione, anche se tra mille dubbi, ci è giunta ma non è questo l’aspetto che rende straordinaria questa puntata. 

Il viaggio nella disperazione dell’animo umano che trova la sua concretizzazione nella dipartita di uno dei membri principali del cast è il vero fulcro sul quale si regge l’intera puntata. La morte, intesa come tentativo estremo di fissare indelebilmente l’ultimo attimo di felicità possibile, diventa una soluzione morbosamente plausibile. Questo ha un effetto scioccante e traumatico nello spettatore, amplificato dalla velocità dell’azione che grazie ad un’abile sceneggiatura viene inserita in un contesto quasi impossibile da prevedere, scatenando uno sconcertante effetto sorpresa. 

Ormai mi è quasi impossibile trovare un aggettivo in grado di definire in maniera adeguata la bravura di Edward James Olmos visto che anche in questa puntata ha fornito almeno due interpretazioni assolutamente fuori scala, inclassificabili, quando si trova a piangere di rabbia all’obitorio urlando la propria frustrazione e delusione e nell’altra scena madre con il Colonello Saul Tigh (Michael Hogan) che si sviluppa attraverso un magistrale dialogo tra i due vecchi amici che oramai a stento si riconoscono.  La tensione è tenuta alta anche attraverso l’altra sottotrama che ci racconta il paradosso nel quale si viene a trovare Kara “Starbuck” Thrace (Katee Sackhoff) dopo che, posta di fronte al proprio riflesso, subisce personalmente anch’essa il duro schiaffo della verità che è il vero tema portante dell’intera puntata.  Anche le scarse qualità recitative di Jaimie Bamber (Lee Adama) in questo caso risultano, paradossalmente, un pregio. 

Chiunque infatti abbia seguito la serie sin dagli inizi sa perfettamente che egli è in grado di produrre due semplici espressioni facciali, che pianga, che rida, che si diverta o che sia triste, ma in questo caso tale mancanza è un valore aggiunto all’interpretazione.  Lee Adama infatti si fa carico delle promesse (o delle menzogne) del mondo e mantiene un’impassibilità che è funzionale al contegno necessario per offrire speranza a chi lo circonda.  In questo senso Lee Adama rappresenta la vera antitesi alla presidentessa Laura Roslin (Mary McDonnell), chiusa autodistruttivamente in se stessa: vittima e carnefice, incapace di vincere la propria disillusione e il personale fallimento.

Ormai risulta evidente a tutti che Battlestar Galactica non è  semplicemente un ottimo serial, ma che incarna uno dei capolavori assoluti della fantascienza televisiva di sempre, in grado di rivaleggiare in spessore, profondità e fascino con i mostri sacri del passato come Babylon 5, Star Trek DS9 o Firefly.