Dall’avanguardia post-cyberpunk alle atmosfere millenariste del suo ultimo lavoro, Neal Stephenson dimostra di non essere certo un autore che ama crogiolarsi sugli allori. Nella sua carriera ha esplorato in lungo e in largo gli orizzonti postmoderni del fantastico, spaziando dal thriller ecologico di Zodiac alle contaminazioni memetiche di Snow Crash, dalla rivoluzione nanotech de L’era del diamante agli intrighi storici che dalla prima guerra mondiale di Crytonomicon affondano indietro nel tempo fino al Ciclo Barocco (lasciato incompleto dal suo editore italiano…). Il 9 settembre uscirà in America Anathem, la sua ultima fatica, e ancora una volta ci troviamo di fronte a un totale stravolgimento di prospettiva.

Il titolo, come spiega l’autore in un’intervista a Sci Fi Wire, è un gioco di parole che richiama tanto gli anatemi (in inglese: anathema) che con il Nuovo Testamento cominciano ad abbattersi sugli eretici, quanto i tradizionali inni (in inglese: anthem). Nel libro fa riferimento in realtà a una pratica cerimoniale, strettamente correlata al mondo futuro inventato da Stephenson, in cui tutti i letterati e le persone razionali si sono ritirate in isolamento volontario in un sistema di monasteri. Questi eremi non sono più luoghi di culto religioso ma rifugio per comunità di filosofi, scienziati e liberi pensatori. Un po’ come avveniva nel classico Un cantico per Leibowitz di Walter M. Miller Jr. (959), sono questi gli ultimi centri di sapere del mondo. Anathem segue le imprese di un gruppo di giovani alle prese con un’avventura dopo avere trascorso la maggior parte della loro esistenza in uno di questi rititi.

L’idea, ha confessato Stephenson, risale a circa 10 anni fa e venne fuori nel corso di una chiacchierata con due futuristi visionari: l’inventore Dennis Hillis (progettista nei primi anni Ottanta di una delle prime architetture di calcolo distribuito, la Connection Machine del MIT) e l’autore ed editor Stewart Brand (inventore del Whole Earth Catalog, una raccolta di informazioni utili precorritrice di Internet, sorta con l’intento di stimolare la nascita di una tecnologia e di una cultura nuove, positive e sostenibili). All’epoca Hillis e Brand stavano mettendo in piedi la Long Now Foundation, una fondazione privata attiva ancora oggi che fin dalla sua nascita (forte del sostegno di un artista di primo piano del calibro di Brian Eno) si proponeva di attestarsi come istituzione culturale a lungo termine, un intento maturato dalla constatazione di quanto il progresso (diremmo oggi “accelerato”) portasse a sempre più rapidi mutamenti di prospettiva. Dalla sua costituzione, la Long Now Foundation ha avviato progetti come il Rosetta Project per la preservazione dei linguaggi a rischio di estinzione entro l’anno 2100 e il Long Now Clock (detto anche 10.000 Year Clock o Millennium Clock), l’Orologio del Lungo Presente pensato per scandire il tempo per i prossimi 10.000 anni. Combinando un doppio meccanismo in grado di garantire affidabilità e precisione e di soddisfare i requisiti primari del progetto (che erano longevità, trasparenza, manutenibilità, evolvibilità e scalabilità, per garantirne il corretto utilizzo da parte delle generazioni future anche nelle peggiori condizioni immaginabili, ovvero la regressione al livello tecnologico dell’Età del Bronzo), il Millennium Clock è entrato in funzione proprio all’alba del 2000, in tempo per far risuonare il primo dei 9 cucù per cui è stato concepito.

Una veduta del prototipo del Long Now Clock, ideato da Dennis Hillis e dalla sua Long Now Foundation e ora conservato presso il Museo della Scienza di Londra.
Una veduta del prototipo del Long Now Clock, ideato da Dennis Hillis e dalla sua Long Now Foundation e ora conservato presso il Museo della Scienza di Londra.
Di questo orologio immaginato per sfidare i secoli e i millenni Stephenson parlò con i suoi inventori quando il progetto esisteva ancora solo nelle loro teste. Hillis e Brand gli chiesero di immaginare a cosa un congegno simile avrebbe potuto somigliare e Stephenson se ne uscì con l’idea di un meccanismo gigantesco, con muri e porte la cui apertura fosse controllata dalla logica di scansione del tempo, in modo che si aprissero con cadenza periodica per poi richiudersi nuovamente. Trasposta sulla carta, la visione si è quindi tradotta in queste comunità monastiche che tagliano i ponti con l’esterno, riducendo a zero l’assorbimento di notizie in tempo reale e l’esposizione a fonti di disturbo e distrazione. Ne è venuta fuori una società rigidamente codificata nei suoi comportamenti, con riti come l’anthem, l’espulsione dei membri ritenuti non più idonei o degni di prendere parte al progetto.

Il libro si apre con una introduzione dell’autore rivolta ai lettori che non sono abituali fruitori di fantascienza o fantastico. L’accessibilità del prodotto, ha ammesso Stephenson, può essere uno dei fattori che tiene solitamente lontani i lettori mainstream dalle opere di matrice fantastica. In fase di revisione, ha avuto modo di sperimentarlo in prima persona nella discordanza di reazioni da parte dei suoi lettori di fiducia: chi aveva una certa familiarità con l’immaginario fantascientifico era disposto a concedere una maggiore fiducia all’autore, aspettandosi che la pazienza sarebbe stata ripagata nel corso dello svolgimento della storia; ma chi non era abituato ai codici non scritti del fantastico ha tradito una maggiore insofferenza davanti alle sue invenzioni. A conti fatti, Stephenson ha ritenuto più appropriato anteporre un breve disclaimer piuttosto che inventarsi una mappa o predisporre una timeline o un glossario. In un mondo in cui la fantascienza domina l’industria dello spettacolo, dal cinema ai videogiochi, mentre perde continuamente fette di mercato (almeno ufficialmente) in ambito letterario, a dimostrare una pazienza maggiore deve essere sempre più chi scrive. E questa è la prima lezione impartita da Neal Stephenson con il suo nuovo, atteso romanzo.