Questo libro dovrebbe cominciare con un’avvertenza speciale e, se Burroughs avesse deciso di apporla in apertura, questa avvertenza avrebbe potuto suonare pressappoco così: “Caro lettore, il viaggio siderale che ti accingi a intraprendere sulla frequenza delle mie onde psichiche non sarà un’esperienza facile, non ti porterà a scoprire i rutilanti scenari alieni di mondi mai toccati dall’uomo, non ti regalerà un briciolo di quel senso del meraviglioso che, dopotutto, ogni lettore con un briciolo di amor proprio cerca in una space opera. Al contrario, attraverso le insidie del mondo e del linguaggio, ti condurrà sempre più in profondità nelle viscere buie e umide dell’animo umano, ti catapulterà in paesaggi da incubi che echeggiano le geometrie distorte della mente, ti costringerà a confrontarti – forse per la prima volta – con cosa significhi celebrare la Rottura (ebbene sì, proprio con la R maiuscola) degli schemi acquisiti. Sarà dura, ma se ne uscirai infine vivo proverai il trionfo animalesco della sopravvivenza. E come lettore, e forse non solo, ne risulterai cambiato per sempre”.

Nova Express è tutto questo e molto di più.

Uscito nel 1964, prosegue la Trilogia Nova iniziata nel 1961 con The Soft Machine (La morbida macchina) e conclusa nel 1962 con The Ticket That Exploded (Il biglietto che è esploso).

1961, quindi, 1964 e… 1962. Un momento: Houston, abbiamo un problema! Dipartimento di Sicurezza a Centro di Controllo… vi risultano per caso incursioni clandestine nella linea temporale dei primi anni Sessanta? – Incursioni di che tipo? – Intelligenze rivoluzionarie, anime disperate, coscienze aliene, mine vaganti… roba di questo tipo. – Hmm… forse abbiamo qualcosa che corrisponde al vostro profilo. Date un’occhiata qui…
“Unico erede maschio della Burroughs Machine Corps St. Louis Missouri. Laureato a Harvard Beta Kappa 37 con ricerche postlaurea in antropologia e psicologia alla Columbia. Per gli ultimi quindici anni sono stato noto come tossicodipendente e omosessuale”. Fu così che William Seward Burroughs, poco più che quarantenne, si presentò a un redattore della Chicago Review che gli aveva chiesto una biografia spicciola. Nato a Saint Louis il 5 febbraio 1914 da una famiglia agiata, erede del progettista della prima macchina da calcolo commerciale di successo. Suo nonno William Seward Burroughs I (1855-1898) era stato un celebre inventore, fondatore della American Arithmometer Company. Teniamolo ben presente, anche se dopo la sua morte la compagnia, rinominata in suo onore Burroughs Adding Machine Company, sarebbe sfuggita al controllo della famiglia e, divenuta infine la Burroughs Corporation (1953), si sarebbe attestata negli anni Cinquanta come il colosso americano nella produzione di calcolatrici. Quello sarebbe stato il culmine della parabola per il sogno industriale vagheggiato da William Burroughs I e, allo stesso tempo, l’inizio della carriera di William Burroughs (II) come agitatore culturale, sovvertitore della Parola, profeta di avanguardie. Di lì a qualche anno la compagnia, che ancora portava il nome di famiglia pur essendo finita in tutt’altre mani, sarebbe incorsa in un repentino declino. Ma la traiettoria siderale dell’astro Burroughs era appena al suo inizio.

Dopo una gioventù irrequieta, all’insegna della provocazione e dell’anticonformismo (a Dubrovnik conobbe e sposò un’intraprendente ebrea tedesca solo per aprirle la porta d’accesso agli Stati Uniti e sottrarla all’avanzata del morbo nazista), arruolato come fante durante la Seconda Guerra Mondiale ma presto congedato per intercessione della madre, fattorino, poi investigatore, quindi reporter e infine disinfestatore, dal 1943, anno del suo incontro a New York con Allen Ginsberg, Jack Kerouac e Neal Cassady, era stato unanimemente riconosciuto come padre spirituale della beat generation.