È sempre grigio il cielo a Popluna. Grigio di fumo. Grigio di schegge. Grigio di ferro. Di angoscia.

Uni lo sa.

L’ho detto davanti al suo simulacro nel tempio, anche ieri. Davanti a lei e davanti a tutti, pure quando non sono stati più solo dei simulacri.

Ieri mi hanno iniziata. Hanno iniziato la mia mente di sacerdotessa votata al sapere e mi hanno lasciata in questo mondo priva della loro arte e del loro sapere.

Che senso ha conoscere gli dèi e le stelle in cui vivono, se tanto poi non possiamo comportarci come loro?

Io volevo la loro arte e il loro sapere, ma non me li hanno dati.

Mi hanno dato solo le viscere già consultate dai Netsvis e sono rimasta a fissare il fegato, chiedendomi se le stelle degli dèi sono tonde come appaiono, o quando cadono è perché sono intestini morti che si srotolano.

La Grande Sacerdotessa, Madre di Popluna consacrata a Uni, labbra grandi come la vulva del mondo, avrà pensato che stessi riflettendo sull’ampiezza del segreto rivelatomi.

Un po’ è stato così.

Sono nata grazie alla Dea Madre della luce e di ogni cosa. Ho aperto gli occhi per la prima volta sulla luminosa verità e non ho potuto fare a meno di pensare alle stelle come intestini.

Non so come ho fatto a trattenermi dal ridere.

Il Trutnvt più anziano della città ha mostrato ai membri della casta gli appunti presi sul mio destino celeste, mentre il fegato si sovrapponeva ai fulmini, di fronte ai miei occhi distratti.

Una volta che ho saputo tutto ho seguito la scena ancora meno. Non mi è importato più di niente, se non del fatto che, tutto quello, da un lato mi faceva morir dal ridere e dall’altro morire sul serio.

Ora, a distanza di un giorno, posso anche ridere di me, di tutti loro, dèi compresi, mentre il sole tenta di affondare gli ultimi bagliori nel golfo fuligginoso di schegge e di tempesta scongiurata.

Tutto è così grigio...

La ghiaia sotto di me si mischia alla ruggine, al quarzo e alle conchiglie, e sghignazza a ogni mio movimento, creando un’atmosfera ancora più lugubre: tutto grigio, tranne il forziere di tesori sotto i miei piedi. Beffa crudele di un fato terrestre e insulso: la terra nasconde le gemme più preziose nelle sue viscere, semi nel suo utero, e noi studiamo viscere di carne per infondere coraggio alle nostre speranze.

Chi mi darà la fede, ormai?

Loro hanno creduto di rivelarmi il più grande mistero, di accordarmi il più grande dei privilegi, di rendermi Dea agli occhi dei comuni mortali, ma io mi sento solo un fegato strappato a una pecora ignara, per soddisfare i superficiali bisogni dei miseri esseri umani.

La Fumosa è là che mi osserva dall’orizzonte, attraverso la foschia. Ci sono giorni in cui si vede anche peggio, quasi fosse imbrattata dalla bava delle nuvole. Ho sempre pensato che un giorno avrebbe potuto inabissarsi, scagliando su di noi bolle di respiro e di mortale marea; oggi sospetto che sarebbe persino in grado di elevarsi fino a porti celesti, i cui nomi mai sono stati uditi né dalla mia gente, né dagli scaltri marinai di Massalia. Per ora emerge dalle acque come la gobba di un mostro marino e attende paziente che, domani, le navi si aggrappino di nuovo a lei per succhiarle la linfa.