La Wikipedia inglese cita invece Sogni di robot, un racconto poco conosciuto scritto appositamente da Asimov per aprire un’omonima antologia (Robot’s dreams, 1987) accompagnata dalle pregevoli illustrazioni di Ralph McQuarrie. In realtà nessuna delle due storie ha molta attinenza con il soggetto di Io robot, benché entrambe possiedano qualche elemento di richiamo, soprattutto la seconda che è l’unica che prospetta l’originale possibilità che un robot possa sognare (originale, beninteso, per la produzione di Asimov. Quando Dick intitolava il suo celeberrimo romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? non faceva di quel tema il soggetto della storia ma si dimostrava

piuttosto all’avanguardia rispetto al vecchio Maestro della fantascienza).

Nel film si scorge una certa nota di compiacimento quando si afferma che, sebbene i robot abbiano un comportamento legato alle Tre Leggi, “le leggi sono fatte per essere infrante”. Ora, è vero che quasi tutti i racconti di Asimov sui robot si basino su casi di infrazione o meglio di difformità d’interpretazione delle tre leggi, però al termine di ogni storia viene sempre ribadito il concetto che i cardini di questo sistema etico-morale artificialmente indotto sono pressoché inviolabili. È ciò non a caso, ma per il fatto che Asimov quando cominciò a scrivere di robot aveva in mente un soggetto diametralmente diverso da quello canonico della produzione pulp in voga all’epoca, il “robot come minaccia” che campeggiava sulle copertine di Amazing stories e di riviste simili inseguendo succinte donnine. Quella che era la versione fantascientifica del Frankenstein di Shelley veniva rifiutata senza mezzi termini da Asimov in quanto portatrice di una visione anti-scientifica del progresso che egli riassumeva nella felice espressione “complesso di Frankenstein”, l’idea cioè che un giorno le macchine costruite dall’Uomo si ribellino e ne prendano il posto. In ciò era evidente il monito verso l’umanità, a non cercare di prendere il posto di Dio nel creare la vita artificialmente: un monito questo che un uomo solidamente ateo benché moralmente retto come Asimov non poteva che rigettare. Tutto questo messaggio nel film di Proyas si perde completamente, o meglio viene diametralmente rovesciato. Perché il senso ultimo della trama è che Spooner/Will Smith aveva ragione: i robot sono pericolosi e tramano per conquistare il mondo. Lo fanno, è vero, per la nobile ragione di salvarci da noi stessi, ma questo lo spettatore comune fatica a capirlo e lo sceneggiatore cerca di nasconderlo sotto il tappeto affinché solo l’esperto possa cogliere questa sottile genialità che arriva dritta dritta dai racconti di Asimov. Il “complesso di Frankenstein” allora non può essere sconfitto, ma anzi va ragionevolmente difeso.

Tutto ciò ci riporta al problema di quali siano veramente le storie da cui il film attinge. Essenzialmente due: Piccolo robot perduto (1947) e il più tardo Che tu te ne prenda cura (1974). Dal primo racconto, incluso nella raccolta da cui il film prende il titolo, è ripreso il tema del robot senza la prima legge che per sfuggire alla cattura si nasconde tra centinaia di suoi simili non modificati. Se però nel racconto il problema si poneva a Susan Calvin come rompicapo logico, e veniva risolto con un affascinante colpo di genio, nel film questa bella scena viene rovinata dal metodo semplicistico del detective Spooner: sparo a tutti i robot, il colpevole sarà l’unico a non farsi uccidere a sangue – o meglio, a metallo - freddo.