“Quella dell’informazione” dichiarò Gibson in un’intervista a Larry McCaffery (1986) “è la metafora scientifica dominante della nostra era, perciò abbiamo bisogno di affrontarla, di provare a capire cosa significhi. Non che la tecnologia abbia cambiato il mondo trasformandolo in codici. Ai tempi di Newton non si guardava alla realtà in termini di scambio di informazioni, ma per noi oggi le cose stanno così. Questo mi porta a confermare il sospetto che Sigmund Freud abbia molto a che vedere con il motore a vapore: in entrambi i casi ci troviamo nella stessa regione metaforica”.

Di fronte a un lavoro così ambizioso e alle

Harrison Ford in <i>Blade Runner</i>
Harrison Ford in Blade Runner
energie che presumibilmente Gibson dovette investire nella sua stesura, non sembra affatto improbabile la leggenda metropolitana (se di leggenda si tratta) che si tramanda sull’uscita di Blade Runner nelle sale: per tutta la proiezione Gibson restò incollato alla poltrona, stravolto dalle immagini che si susseguivano sullo schermo e che sembravano prese di peso dalle sue pagine ancora inedite, e all’uscita dal cinema fu tentato di tornare a casa e buttare nel cestino il manoscritto. Per fortuna lo sconforto del momento passò, e oggi gli appassionati di tutto il mondo possono godere di due capolavori espressi dallo Zeitgeist di quegli anni in due forme artistiche così diverse. E forse, se Neuromante a oggi ha venduto nel mondo oltre due milioni di copie, una parte del merito va attribuita anche all’effetto trainante del film di Ridley Scott. Blade Runner è un’opera paradigmatica, che raccoglie e in un certo senso sintetizza la mitologia occidentale e, allo stesso tempo, se ne serve per elaborarne una adatta ai tempi veloci e mutevoli che stiamo attraversando. Magari è anche grazie all’uso di questo sostrato culturale sostanzialmente noto a tutti, se una pellicola hollywoodiana è riuscita a veicolare immagini e riferimenti appartenenti a un immaginario fondamentalmente di nicchia, e quindi circoscritto, come può essere quello della fantascienza, in maniera più incisiva e quantitativamente consistente di tutte le opere che l’hanno preceduta e seguita.

Per quanto i diversi linguaggi artistici si siano andati massificando, l’immagine e la scrittura continuano ad avere capacità e velocità di penetrazione non ancora paragonabili, in conseguenza del diverso grado di immediatezza dei due media. Così, se oggi immagini e metafore che un tempo sarebbero rimaste prerogativa di un immaginario di genere si sono riversate al di fuori dei suoi confini naturali, rendendosi immediatamente riconoscibili a un bacino generalista sempre più vasto, è anche perché quelle immagini e quelle metafore hanno trovato un vettore adatto che ne ha agevolato la propagazione massiva.Paradossalmente, alla sua uscita nelle sale Blade Runner fu un clamoroso fiasco. La produzione, complessa e laboriosa, tormentata da mille tribolazioni, vide incrementare progressivamente i costi imponendo continue revisioni al rialzo del budget stanziato dai finanziatori. Alla fine la critica fu spietata (lo scrittore inglese Brian Aldiss lo additò senza esitazioni come il peggior film di fantascienza di tutti i tempi) e in America gli incassi coprirono a malapena la metà dell’investimento di 28 milioni di dollari, una cifra senza precedenti per un film di genere. Eppure… Forse fu quella sensibilità che sembrerebbe fosse sospesa nell’aria in quei primi anni Ottanta, la stessa che proprio in quei mesi ispirava a Gibson le sue visionarie metafore tecnologiche e scientifiche, che determinò il progressivo attecchimento dello stile, dell’estetica e delle tematiche del film in un background sempre più ampio. Possiamo tranquillamente sostenere che il progressivo successo di Blade Runner, la sua inesorabile ascesa verso l’esclusiva dimensione delle opere di culto, rappresenta uno dei casi più emblematici di inerzia memetica, e finì per ripagare con la gloria, se non in termini economici, tutti quanti presero parte alla sua lavorazione.

La storia del cinema non vanta molti esempi di film impostisi nell’immaginario collettivo al punto da ridefinirne i contorni. Blade Runner, che vi figura di diritto, è anche l’unico della lista ad avere subito continui rimaneggiamenti: in vista del decennale, nel 1991 Ridley Scott ne mise a punto una Director’s Cut, più cupa e, se vogliamo, ancora più ermetica dell’originale, malgrado le intenzioni del regista inglese di rendere più esplicita la vera natura della personalità di Rick Deckard/Harrison Ford. E per il venticinquennale che ricorre quest’anno, Scott ci è cascato di nuovo, approntando quella che dovrebbe rappresentare la Final Cut, la

Ridley Scott
Ridley Scott
versione definitiva, che combina un nuovo montaggio a una completa revisione dell’immagine. Definitiva? Mai dire mai, specie davanti a un film che a ogni riedizione – al cinema, in laser disc, VHS, e infine DVD – ha saputo guadagnarsi una intera nuova generazione di entusiastici ammiratori.

Nonostante il monopolio quasi dittatoriale esercitato negli ultimi quindici anni da Ridley Scott, con una logica che ormai è arriva a sfiorare pericolosamente le dinamiche del nudo e crudo sfruttamento commerciale del marchio e dell’immagine del film, Blade Runner reca ancora oggi i segni benefici di un apparato cooperativo senza precedenti. Il contributo apportato da ciascuno dei suoi autori è stato determinante nel suo duraturo successo: le tematiche prelevate dal romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968) di Philip Dick, interprete straordinario dell’inquietudine dell’uomo contemporaneo; la sceneggiatura concepita con slancio e passione da Hampton Fancher (la vera anima del meccanismo produttivo che, a conclusione di una lunga via crucis, avrebbe portato alla realizzazione del film) e messa a punto dalla professionalità di David Peoples; la suggestiva colonna sonora del grande Vangelis; le scenografie del designer Syd Mead (già implicato nell’ideazione delle linee del Concorde, per lui fu escogitata dalla produzione una nuova figura professionale per evitare spiacevoli strascichi con i terribili sindacati hollywoodiani: nei titoli di coda figura come “futurista della visualizzazione”), abilissimo nel mescolare invenzioni barocche e monumentalità gotiche in un evocativo melange cleptoarchitettonico; senza dimenticare gli effetti speciali di Douglas Trumbull, già collaboratore di Stanley Kubrick per il grande predecessore, 2001: Odissea nello Spazio, la fotografia di Jordan Cronenweth (curatore storico per Francis Ford Coppola) e le interpretazioni memorabili (su tutti, le due donne artificiali, Rachael Tyrell/Sean Young e Pris/Daryl Hannah, il sofisticato Gaff/Edward James Olmos e il titanico Roy Batty di Rutger Hauer). Con un simile mix di valori, considerando in retrospettiva quanto “regalatoci” dal cinema degli ultimi anni, non può non destare stupore e meraviglia che si sia riusciti a indovinare la ricetta giusta.